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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post in cui compare la parola jaipur literature festival

Cyrus Mistry ha vinto il DSCPrize

Cyrus Mistry, autore di Le Torri del Silenzio (Chronicle of a Corpse Bearer il titolo originale), appena pubblicato per Metropoli d’Asia, ha vinto il DSCPrize.

Si tratta del premio più prestigioso per la letteratura asiatica, ed è stato consegnato in occasione del Jaipur Literature Festival.

Qui si può leggere l’articolo di Andrea Berrini sul suo blog In diretta dall’Asia, mentre di seguito potete trovare un po’ di rassegna stampa (in aggiornamento):

Le Torri del Silenzio finalista al DSC Prize

Dunque ci siamo. Il 18 gennaio, al Festival di Jaipur, si assegna il vincitore del più prestigioso premio del subcontinente indiano.

Tre romanzi indiani, due pakistani, uno dallo Sri Lanka: fra loro Le Torri del Silenzio di Cyrus Mistry, che abbiamo portato in libreria ai primi di dicembre.

La shortlist è pronta da fine novembre, scegliamo di annunciarla ora per creare un po’ di suspence. Vi terremo aggiornati a poco a poco. Intanto oggi è uscito il programma del Festival.

L’India dei conflitti

Venerdì scorso Internazionale ha tradotto e pubblicato un lungo articolo di Arundhati Roy da Outlook India, sull’India dei conflitti: da un lato le cinquanta famiglie più ricche del paese, dall’altro mezzo miliardo e passa di contadini poveri e abitanti degli slum, che dello sviluppo economico impetuoso beneficiano poco assai, divenendo invece le vittime delle frequenti espulsioni di massa, naturalmente senza indennizzi, da terreni che poi verranno sfruttati per l’estrazione mineraria o per la costruzione di impianti industriali: ed è vero, sì, che tutto ciò produce posti di lavoro e salari, ma sempre a lungo termine.

Insomma, non è certo che lo sviluppo vada a benificio dei ceti più poveri, di sicuro non in quest’India ostaggio delle oligarchie economiche. A parte l’utilizzo a piene mani del vocabolo “capitalismo” (che a me pare come se tutte le volte si ricordasse che gli umani respirano) la critica coglie nel segno.

E allora consiglio la lettura del suo ultimo libro (In marcia con i ribelli), uscito con Guanda: rispetto al nostro I miei luoghi di Annie Zaidi, i libri della Roy sono più sistematici, mentre Annie Zaidi resta magistralmente piu’ vicina all’oggetto del suo sguardo: dove la Roy spiega, la Zaidi splendidamente racconta, e ciascuno scelga a seconda delle sue preferenze, perché poi l’oggetto della ricerca è sempre lo stesso.

Una cosa mi piace segnalare dell’articolo di Arundhati Roy: anche lei sostiene che le polemiche sollevate attorno al Festival di Jaipur per il boicottaggio a Rushdie hanno avuto solo l’effetto di sottrarre l’attenzione del pubblico dai temi reali che al Festival si andavano trattando: l’India dei conflitti, appunto. E la polemica di Arundhati ha un bersaglio: molta della cultura indiana, e il Festival di Jaipur tra tutti, è vastamente sponsorizzata dai megagruppi indistriali indiani. A Jaipur perfino l’ufficio stampa del Festival aveva uno sponsor di tal fatta…

Insomma: agli amici che avevano criticato certi miei post da Jaipur, e molti tweet, nei quali io dicevo lo stesso (parliamo dell India, e non di Rushdie!) adesso posso dire: visto? Non sono il solo a pensarla cosi. Insomma: mi sento meglio.

A tutti dico: leggetevi Tehelka, che e sempre online: è cosi si che si capisce l’India.

Foto: Satish Krishnamurthy

Dir di no

Com’è difficile dir di no.

Quando decisi di saltare il fosso, e da scrittore trasformarmi in editore, ero solito dire: son passato dall’altra parte della barricata. La parte comoda, dove tieni il bastone del comando.

Ora, al di là dei molti oneri e dei pochi onori del mestiere di editore (sia esso in partnership con una possente macchina editoriale che ti chiude nel Castello Kafkiano, dove non tu non sai mai chi ha preso la decisione o non decisione sbagliata, e dove ti hanno nascosto il bandolo di una matassa che sempre più ingarbugliano a dovere; o sia esso l’editore indipendente, che a sua volta dipende da uno stuolo di fornitori e collaboratori che giustamente ti tirano per la giacca sette volte al giorno, e il dettaglio di cui ti stai occupando in quei sette minuti è ben lungi dal contenere in sé il mondo ma anzi, moltiplicato per cento costruisce un mosaico rococò di punte degli iceberg, e tu non hai mai il tempo di vederne i sei settimi che stanno sotto), la presunta comodità da Deus ex Machina si infrange davanti al manoscritto di un autore (puoi quasi definirlo un amico) che non ti pare all’altezza.

E allora?

“I am pained”, mi rispose Raj Rao alla mail nella quale gli comunicavo che non avrei pubblicato né preso i diritti da agente di un suo romanzo. Non ne rivelo il titolo, perché Raj sta ancora cercando di piazzarlo, e spero davvero trovi un editore in India. Ma “I am pained”, colpisce me come un cazzotto allo stomaco. Io non voglio addolorare nessuno, non mi piace questa responsabilità.

Mi metto in salvo dunque ricordando i tempi in cui mi trovavo dall’altra parte della barricata. Una volta, dopo un anno di attesa e un lavoro di cesello a fianco di un editor importante, il giudizio finale sui miei racconti fu: “acqua fresca”. L’editor, cercando di consolarmi, disse: che poi non capisco perché acqua fresca vada inteso negativamente.

I racconti furono in seguito accolti (eh già: di accoglienza si tratta, dal punto di vista dello scrittore) da un editore meno importante, e la festa per il loro arrivo nelle librerie fu calorosa e partecipata. Anni dopo un (pessimo, lo ammetto) tentativo di romanzo giallo fu stroncato da un “ci ha molto deluso” (e certo: grazie per le aspettative).

Il giallo comunque fu giudicato troppo allineato a uno stile da serial televisivo, dove invece che sprazzi di realtà si mostrano stereotipi, cliché, luoghi comuni: quanto di peggio, insomma (e inutile stare a raccontare che il mio intento ben altro era da quello: non sono riuscito nel mio intento, quindi zitto e mosca). (NB: una delle due risposte negative mi arrivò un venerdì 13, e qui chi più ne ha più ne metta, perché l’autore rifiutato sa inventarne di ogni).

È invece un venerdì 20, al Jaipur Literary Festival, quando ricevo la chiamata di Raj. Faccio qualche passo nella direzione indicata, mi giro tre volte su me stesso dicendo dove sei, fino a sentir la frase nel cellulare: ti sto guardando.

Raj mi guardava con un espressione torva, perfino spaventata: in ogni caso pained. Ci siamo seduti su due sedie nel prato, circondati da una marea di gente, mentre il suo accompagnatore dopo avermi stretto la mano si accovacciava sull’erba dandomi la schiena. A dirla tutta, Raj quasi non parlava, dovevo tirargli fuori frasi smozzicate.

Capivo che ogni mio atteggiamento rischiava di ferirlo, sentivo la nevrosi nella sua domanda: perché ieri non mi hai chiamato? Avevamo deciso di andare insieme a un party editoriale, ma io ero arrivato tardi a Jaipur e non mi ero fatto sentire. Immaginavo che lui immaginasse che io avessi volutamente evitato di farmi vedere insieme a lui: immaginare è certo prerogativa degli scrittori e degli editori-scrittori, e quindi occhio: a volte bisogna saper mollare la presa.

In ogni caso nei giorni successivi lo ho calorosamente salutato tutte le volte che lo incontravo: mi facevo un punto d’onore di farmi vedere a chiacchierare con lui. Perché la sua, di nevrosi, da scrittore omosessuale e attivista, e accademico che con fatica ha di recente visto riconosciuti i propri diritti in quanto a carriera e posizioni di prestigio, è una nevrosi argomentata, e insomma Raj non ha tutti i torti.

Il suo editor di riferimento in India, colui che aveva gli ha pubblicato i primi tre libri, ha recentemente cambiato posizione. E: “lo sai, l’editoria indiana è piena di donne”. In effetti il suo romanzo ha una donna tra i protagonisti del triangolo amoroso complicato, etero e omo. Troppo luogo comune, troppo cliché. Ma sono d’accordo con Raj: anche la reazione negativa delle pur bravissime donne dell’industria editoriale indiana è improntata a un cliché: le donne che in India faticano a imporre la loro indipendenza, a guadagnarsi il rispetto, rispondono poi a ogni visione critica con un riflesso da politically correct. Cliché contro cliché.

Che dire? L’ho fatto, ho rifiutato il manoscritto. Gli ho anche dato dei consigli, ho capito l’intenzione, ho criticato il risultato. Gli ho augurato di trovare un editore indiano. Gli ho raccontato qualche balla di troppo sul mercato librario italiano. Ho anche provato a girarla dal lato giusto: spiegando per bene cosa intendevo (me lo son riletto due volte nei giorni precedenti all’incontro di Jaipur). Gli ho fatto vedere dove e quando: Raj non era d’accordo, naturalmente.

Ecco che ho fatto, alla fin della fiera: ho scritto questo post, e invece di chiamarlo per nome e cognome, ecco apparire Raj. Raj di qua, Raj di la. Io sono tuo amico. Raj…

Ricapitolando un po’ su Rushdie a Jaipur

Il giorno prima dell’inizio del Festival alcuni politicanti locali annunciano manifestazioni contro la presenza di Salman Rushdie al Jaipur Literary Festival. Siamo in periodo pre-elettorale e tutto fa gioco: voti musulmani da conquistare. Ricordiamoci che siamo in un paese dove i fondamentamentalismi religiosi (quello indu su tutti) sono vastamente utilizzati come strumenti di consenso elettorale e di potere.

Tutti sono abituati al succedersi di casi del genere. A tratti, con una certa regolarità purtroppo, la conflittualità interreligiosa (che si sovrappone a quella tra Pakistan e India) esplode, nel senso letterale del termine: pogrom, attentati, bombe. Saltano per aria stazioni ferroviarie e altri luoghi frequentati. E questi sì sono fatti importanti.

Ma la notizia delle manifestazioni anti-Rushdie viene trattata dagli organizzatori del Festival e dagli scrittori e intellettuali locali come fatto di routine. Appunto, siamo in un paese che alle notizie minori ci ha fatto il callo.

Il giorno dopo Rushdie annuncia di avere ricevuto dai servizi segreti la notizia che da Bombay sono in partenza due (o tre) killer prezzolati per ucciderlo: e rinuncia al festival. La notizia, di nuovo, è accolta con una certa sufficienza a Jaipur: gli organizzatori chiedono esplicitamente alla stampa di occuparsi degli altri scrittori e non solo del caso Rushdie. La sensazione prevalente è: Rushdie (odiatino e invidiato, uomo di grande potere) si sta facendo un po’ di pubblicità, i politicanti ci rompono come sempre le scatole, il fondamentalismo è la solita tara, ma noi cerchiamo di tirare dritto.

Quattro scrittori invece iniziano una protesta: in apertura delle loro sessioni di dibattito iniziano a leggere brani da I versi satanici. Gli organizzatori accorrono e chiedono loro di sospenderne la lettura. Improvvisamente tutti si rendono conto che il libro è censurato in India (paese a maggioranza induista, non c’è nessuna Sharia, qui). Anzi le autorità locali, saputo dell’accaduto, consigliano ai quattro scrittori di lasciare immediatamente il paese, perché esiste il rischio concreto di essere arrestati (per loro, e il rischio che nel frattempo si spostino consistenti pacchetti di voti).

Di nuovo, la cosa viene accolta come si accoglie la grandine: è l’India, ne succedono di cotte e di crude ma andiamo avanti. Parte una petizione contro la censura a I versi satanici, e qualcuno fa osservare che i libri censurati sono molti, in India: urge un censimento. E le censure appaiono avere carattere di assurdità spesso e volentieri, proprio perché risultato di manipolazioni del consenso da parte di piccoli e grandi potentati politici, a livello nazionale e locale.

Ma quando le autorità centrali (e i servizi) annunciano che non è mai partito nessun allarme riguardo ai killer, e che anzi l’allarme è da considerarsi risibile, a molti cadono le braccia. Rushdie è atteso da un giro di conferenze stampa: c’è un film in produzione tratto da I figli della mezzanotte.

In conclusione: al di là del consueto show mediatico e pre-elettorale, mi pare di vedere tre posizioni differenti.

La prima è quella di autori indiani in voga, vedi il Moccia locale Chetan Bhagat (stranamente tradotto in Italia da un editore bravo e attento come E/O), che rappresentando in modo organico (così si diceva una volta) la cultura del ceto medio indiano, afferma che se Rushdie ha offeso i sentimenti religiosi di qualcuno è giusto che sia perseguito. In sostanza: in India emerge una classe di moderni benpensanti e gli scrittori da show li rappresentano pienamente.

La seconda posizione è quella di autori indiani non residenti, cioè di cittadinanza (e magari nascita) americana o britannica, che reagiscono in modo automatico alla fatwa, senza farsi troppe domande sul contesto: come se il fatto accadesse a Londra.

La terza è quella di molti scrittori e intellettuali indiani (è abbastanza chiaro che io concordo con questi ultimi) che prendono spunto per aprire una campagna sulla censura, ma insistono nel ricordare che in questo paese i problemi sono ben altri (e soprattutto i killer: sui giornali veniva in questi giorni confinata in pagina interna la notizia di quattordici tra poliziotti e cittadini trucidati da un assalto maoista nel nord-est del paese, e sarebbe stato la stessa cosa se si fosse trattato del solito omicidio di massa di contadini da parte delle forze di sicurezza indiane). Salman Rushdie, per queste persone, è proprio l’ultimo dei problemi, in India.

Nota a margine: le prime due posizioni esprimono dei luoghi comuni. La terza è posizione da scrittori veri proprio perché lontana dal luogo comune (o stereotipo che dir si voglia).

Seconda nota a margine: noi occidentali dobbiamo stare molto attenti a non riproporre i nostri luoghi comuni nelle realtà altrui.

E comunque: no alla censura.

PS: In Italia esistono libri e/o spettacoli censurati? Quali? Che sentimenti religiosi offendono?

Foto: kittell

In diretta dallo Jaipur Literature Festival

Siamo alla Jaipur Literature Festival, importante evento letterario indiano che quest’anno ha fatto molto parlare per le polemiche legate all’invito a Salman Rushdie e le questioni legate alla sicurezza. Seguiteci su Twitter per aggiornamenti da lì, e seguite anche l’hashtag #JLF per tutto quello che riguarda il Festival.

Jaipur Literature Festival

Sito ufficiale.

Il punto sull’Ubud Festival

L’Ubud Writers & Readers Festival ha aperto ieri, in tono minore rispetto alle ultime due edizioni che lo avevano visto crescere per la qualità degli ospiti e delle discussioni suscitate.

Un programma ristretto a soli quattro giorni, una nutrita pattuglia di autori indonesiani con molte assenze di rilievo, la consueta sfilata di nomi dall’Australia (le cui Università continuano a imporre il proprio ruolo di chioccia al mondo editoriale del sudest asiatico), una spruzzata di americani e britannici (direi Junot Diaz su tutti).

Kunal Basu dall’India, Tariq Ali dal Pakistan. Lo sponsor principale, City Bank, è venuto a mancare a pochi mesi dal festival e il programma ne risente. Peccato, perchè l’occasione, e il luogo, meritano di più: una cittadina in mezzo alla foresta e alle risaie dell’isola di Bali i cui alberghi, sulla soglia della stagione delle piogge, aprono gratuitamente le loro stanze agli ospiti.

Per questo nelle ultime edizioni Ubud era riuscito a imporsi come crocevia delle scritture asiatiche, una sorta di seconda Jaipur (che invece si tiene in febbraio).

Ricordo l’anno scorso l’esultanza di molti autori nel trovarsi in questo luogo magico: di fatto una strada che percorre una cresta tra due valloni verdeggianti, gli hotel e le guest houses aggrappati sui due versanti.

Qui sono alcune gallerie d’arte tra le più importanti dell’Indonesia: l’arte contemporanea non risente della crisi, fiumi di denaro continuano a essere riversati su pittori, scultori e performers e gli scrittori cominciano a domandarsi se abbiano scelto il mestiere giusto. Insomma: cosa fare per rendere trendy la narrativa asiatica?

Dopo Jaipur Literature Festival: commenti, arguzie, polemichette

Da Tehelka di venerdì 28, ecco un suggerimento: leggere di più, e restar seduti al balcone, a osservare bevendo un caffè. Ecco come Namita Ghokale e William Darlymple rispondono alle critiche. DNA India invece si lascia scioccare dalle furbate di Welsh. Preoccuparsi è necessario: ma questa nuova Asia letteraria ci riproporrà le fregnacce a cui già siamo abituati in Occidente? Speravamo in qualcosa di nuovo. Scenda ora il silenzio, e ricominciamo a leggere.
Forse, il commento più sardonico è quello del nostro Indrajit Hazra, che nella sua rubrica del sabato ignora l’EVENTO, e si occupa di James Blunt.

Vikram Seth vs Sarnath Banerjee

A suitable audience è il gioco di parole dell Hindustan Times dal Ragazzo Giusto di Vikram Seth (A Suitable Boy). Fa piacere sapere che il nostro amico Sarnath, graphic novelist di vaglia, autore di The Corridor (misteriosamente pubblicato in Italia) e The Barne’s Owl ha attirato su di sè l’attenzione dei grandi alla Durbar Hall. Sarnath è anche editore di fumetti, e globe trotter a tempo pieno. E’ il tipo di autore che Metropoli d’Asia aspetta alla sua prova importante, ammesso che qualche editor indiano sia capce di metterglisi alle calcagna.
Oggi la stampa indiana è però attratta più dalle star che vengono da fuori, che dagli autori locali. Vedi Dna India su Martin Amis, e Junot Diaz per Times of India. Di sicuro quest’anno l’occasione è mondana e in mondovisione: molti gli editor europei in visita mordi e fuggi (modello ‘io c’ero’), ma buona esposizione sulla nostra stampa (bello l’articolo di Livia Manera sul Corriere di sabato). Poche storie: due anni fa ha aperto Hachette India, di oggi la notizia dell’apertura a Delhi di un ufficio locale della prestigiosa agenzia internazionale Aitken Alexander. La Cina sfida il gigante americano, ma l’India ha già il quarto PIL del mondo…

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