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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Un giorno, dopo aver chiuso a chiave, come al solito, la porta del mio appartamento a Bombay, a Soul City, ed esser uscito sulla strada su cui affaccia il mio palazzo – strada che per l’appunto è un’arteria traffi cata – notai un gran quantità di gente andare a piedi da ovest a est, tutti nella stessa direzione, e dato che non avevo un granché da fare, e senza molte alternative del resto, visto che la folla, piuttosto numerosa, affl uiva con tale irruenza da impedirmi di andare altrove, mi unii a quello sciame e cominciai ad avviarmi senza avere idea di dove stesse andando e del perché; mentre camminavo, mi passarono per la testa un’infi nità di pensieri, e analizzandone la natura, scoprii che la maggior parte riguardava il desiderio di scoprire dove fosse diretta quella massa, congettura oziosa che mi occupava la mente, ma alla quale cionondimeno mi abbandonai, dal momento che tutto ciò ormai stuzzicava la mia curiosità: si stavano dirigendo a un comizio in un parco pubblico per ascoltare un pezzo grosso della politica? O si trattava piuttosto delle riprese di un fi lm in cui il protagonista era impegnato in una sequenza in cui cantava con la protagonista – o magari con un altro attore? O ancora, era possibile che fosse scoppiato da qualche parte un incendio gigantesco e che la gente volesse vedere con i propri occhi i danni causati dal fuoco? Intervenne poi un’altra parte del mio cervello a mettere in ridicolo quelle stupide ipotesi su comizi, set cinematografi ci e incendi, e accantonandole tutte, avanzò la sua teoria: se la gente camminava, era semplicemente perché non c’erano taxi né autobus a portarla in giro. E realizzando all’improvviso che effettivamente di autobus e taxi per strada ce n’erano pochissimi, concluse che era un bandh, un giorno di protesta contro questa o quella minaccia per la vita in città, come una rivolta o un’esplosione, evenienze piuttosto comuni al giorno d’oggi; malgrado il caldo, continuai a camminare, spintonato dalla folla che aumentava di minuto in minuto, e mentre mi muovevo le mie braccia oscillavano e sfi oravano i corpi di estranei, perlopiù di uomini, ma anche di donne, quelle poche al seguito del marito/fratello/padre/fi glio, e a volte mi trovavo a urtare parti sconvenienti come fi anchi, cosce e chiappe; siccome però la cosa non era intenzionale e dipendeva dall’enorme quantità di gente, nessuno aveva da ridire e continuava a camminare tranquillo; per spezzare il tedio di questa camminata senza meta, cominciai a spassarmela studiando i tratti fi sici della folla, piccoli dettagli come la curvatura della spina dorsale, lo spessore dei palmi delle mani, il grasso debordante dei fi anchi, o la sporcizia incastrata sotto le unghie, e il risultato di questo esercizio fu davvero illuminante, mi portò alla scoperta della sostanziale bruttezza del corpo umano, che in quel momento mi apparve assolutamente privo di grazia con quel modo che aveva di trotterellare qua e là sui piedi, senza preoccuparsi di apparire goffo a chiunque si desse la pena di guardarlo attentamente per fare paragoni; pensai che, messe a confronto, certe specie di animali come il cervo o il cavallo, note per l’agilità delle zampe, risultassero più evolute; mentre proseguivo con il passatempo di scrutare i corpi, così vicini ormai che si aveva l’impressione di essere avvolti dagli altri, e mi giravo di tanto in tanto per dare un’occhiata anche a quelli dietro di me, vidi teste con incipienti calvizie, piedi screpolati, narici pelose zeppe di moccio, e tanto altro ancora; presto, però, il mio senso dell’olfatto prevalse sulla vista e dopo una sorta di lotta interiore il primo ebbe, naturalmente, la meglio; come infatti fa notare un articolo recentemente pubblicato dal «Times of India», l’odore penetra nella parte emotiva del nostro essere molto più effi cacemente di quanto non facciano il suono o la vista: e infatti l’articolo parlava dell’olfatto come del più antico e misterioso dei sensi e proseguiva ricordandoci che era stato l’odore della madeleine inzuppata nel tè tiepido a far scrivere a Proust La ricerca del tempo perduto in sette volumi!

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Da Il mo ragazzo, di R. Raj Rao

Si avviarono. Una volta usciti dalla stazione, mentre aspettavano il verde alle strisce pedonali, Yudi prese al ragazzo la mano. Era fredda, nonostante la calura. Le dita sottili, ossute. Scarne, sgradevoli da stringere. Il ragazzo non la ritrasse e lasciò che Yudi gliela tenesse finché gli pareva. Per Yudi stare mano nella mano era un preliminare piacevole. Ogni volta che abbordava qualcuno, dava inizio a questo rituale molto prima di arrivare a casa. Tuttavia la maggior parte degli uomini sfilava la mano dopo qualche minuto, dicendo: «Ci guardano». Al che lui replicava facendo notare che erano in India, mica in America; gli adulti si tenevano per mano in segno d’amicizia. Ma i suoi partner rimanevano scettici. Alcuni continuavano a lasciarlo fare, ma solo per educazione. Ora, mentre si dirigevano all’appartamento della madre, Yudi si chiedeva a quale categoria appartenesse il ragazzo. Era una questione di educazione, oppure gli andava veramente di essere tenuto per mano da lui? All’improvviso si rese conto di non aver domandato al ragazzo come si chiamasse.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Adesso che ho perfezionato la Sua arte, devo anche perfezionare le Sue sembianze. Il Suo modo di camminare, parlare, vestire. Mi rendo conto di aver trascurato questi aspetti realistici della Sua personalità nella mia narrazione, solo perché non sono particolari ai quali ho accesso. In vita mia non ho mai visto il vero Rushdie di persona nemmeno una volta. L’ho visto solo in televisione, sulla sovraccoperta dei Suoi libri, su quotidiani e riviste. Che posso farci? Quanto a faccia e capelli, ho il mio barbiere del quartiere Nana. Anche lui condivide la fi losofi a di Dio. È bugiardo quanto Lui. La realtà della nostra faccia è noiosa. Meglio trasformarsi in personaggi inventati, in fi gure di fantasia, diventare quello che non siamo. Solo così avremo il mondo intero ai nostri piedi. È come smettere di occuparsi di automobili e passare agli aerei.

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Metropoli d’Asia su Alfabeta2

Metropoli d’Asia è stata citata in un articolo sull’India e la sua visibilità nel mercato editoriale italiano, insieme ad altre case editrici e pubblicazioni. In particolare, per Metropoli d’Asia si parla di Il mio ragazzo di R. Raj Rao e di Nel cuore di Smog City, di Amruta Patil.

Il nuovo numero di Cha

Nel numero di marzo di Cha: An Asian Literary Journal segnaliamo un bell’editoriale di Tammy Ho. Tra le recensioni due libri di Ethos Books (The New VIllage e The Beating and Other Stories), più Out!, un’antologia di scritture omosessuali indiane, tra cui Crocodile Tears di R. Raj Rao.

Autobiografia di un indiano ignoto su Indian words

Un’altra recensione di un libro di Metropoli d’Asia su Indian words. Questa volta si tratta di Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao.

Non è la prima volta che in un libro il protagonista vuole uccidere Salman Rushdie (d’altra parte sono in molti che lo vorrebbero uccidere).
In Piccolo soldato di Dio di Nagarkar era un aspirante terrorista islamico, nel primo racconto di questa raccolta di R. Raj Rao, con una simile dose di ironia, è un sosia di Rushdie che non ne può più di essere minacciato al posto suo.

(continua a leggere su Indian words)

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Dir di no

Com’è difficile dir di no.

Quando decisi di saltare il fosso, e da scrittore trasformarmi in editore, ero solito dire: son passato dall’altra parte della barricata. La parte comoda, dove tieni il bastone del comando.

Ora, al di là dei molti oneri e dei pochi onori del mestiere di editore (sia esso in partnership con una possente macchina editoriale che ti chiude nel Castello Kafkiano, dove non tu non sai mai chi ha preso la decisione o non decisione sbagliata, e dove ti hanno nascosto il bandolo di una matassa che sempre più ingarbugliano a dovere; o sia esso l’editore indipendente, che a sua volta dipende da uno stuolo di fornitori e collaboratori che giustamente ti tirano per la giacca sette volte al giorno, e il dettaglio di cui ti stai occupando in quei sette minuti è ben lungi dal contenere in sé il mondo ma anzi, moltiplicato per cento costruisce un mosaico rococò di punte degli iceberg, e tu non hai mai il tempo di vederne i sei settimi che stanno sotto), la presunta comodità da Deus ex Machina si infrange davanti al manoscritto di un autore (puoi quasi definirlo un amico) che non ti pare all’altezza.

E allora?

“I am pained”, mi rispose Raj Rao alla mail nella quale gli comunicavo che non avrei pubblicato né preso i diritti da agente di un suo romanzo. Non ne rivelo il titolo, perché Raj sta ancora cercando di piazzarlo, e spero davvero trovi un editore in India. Ma “I am pained”, colpisce me come un cazzotto allo stomaco. Io non voglio addolorare nessuno, non mi piace questa responsabilità.

Mi metto in salvo dunque ricordando i tempi in cui mi trovavo dall’altra parte della barricata. Una volta, dopo un anno di attesa e un lavoro di cesello a fianco di un editor importante, il giudizio finale sui miei racconti fu: “acqua fresca”. L’editor, cercando di consolarmi, disse: che poi non capisco perché acqua fresca vada inteso negativamente.

I racconti furono in seguito accolti (eh già: di accoglienza si tratta, dal punto di vista dello scrittore) da un editore meno importante, e la festa per il loro arrivo nelle librerie fu calorosa e partecipata. Anni dopo un (pessimo, lo ammetto) tentativo di romanzo giallo fu stroncato da un “ci ha molto deluso” (e certo: grazie per le aspettative).

Il giallo comunque fu giudicato troppo allineato a uno stile da serial televisivo, dove invece che sprazzi di realtà si mostrano stereotipi, cliché, luoghi comuni: quanto di peggio, insomma (e inutile stare a raccontare che il mio intento ben altro era da quello: non sono riuscito nel mio intento, quindi zitto e mosca). (NB: una delle due risposte negative mi arrivò un venerdì 13, e qui chi più ne ha più ne metta, perché l’autore rifiutato sa inventarne di ogni).

È invece un venerdì 20, al Jaipur Literary Festival, quando ricevo la chiamata di Raj. Faccio qualche passo nella direzione indicata, mi giro tre volte su me stesso dicendo dove sei, fino a sentir la frase nel cellulare: ti sto guardando.

Raj mi guardava con un espressione torva, perfino spaventata: in ogni caso pained. Ci siamo seduti su due sedie nel prato, circondati da una marea di gente, mentre il suo accompagnatore dopo avermi stretto la mano si accovacciava sull’erba dandomi la schiena. A dirla tutta, Raj quasi non parlava, dovevo tirargli fuori frasi smozzicate.

Capivo che ogni mio atteggiamento rischiava di ferirlo, sentivo la nevrosi nella sua domanda: perché ieri non mi hai chiamato? Avevamo deciso di andare insieme a un party editoriale, ma io ero arrivato tardi a Jaipur e non mi ero fatto sentire. Immaginavo che lui immaginasse che io avessi volutamente evitato di farmi vedere insieme a lui: immaginare è certo prerogativa degli scrittori e degli editori-scrittori, e quindi occhio: a volte bisogna saper mollare la presa.

In ogni caso nei giorni successivi lo ho calorosamente salutato tutte le volte che lo incontravo: mi facevo un punto d’onore di farmi vedere a chiacchierare con lui. Perché la sua, di nevrosi, da scrittore omosessuale e attivista, e accademico che con fatica ha di recente visto riconosciuti i propri diritti in quanto a carriera e posizioni di prestigio, è una nevrosi argomentata, e insomma Raj non ha tutti i torti.

Il suo editor di riferimento in India, colui che aveva gli ha pubblicato i primi tre libri, ha recentemente cambiato posizione. E: “lo sai, l’editoria indiana è piena di donne”. In effetti il suo romanzo ha una donna tra i protagonisti del triangolo amoroso complicato, etero e omo. Troppo luogo comune, troppo cliché. Ma sono d’accordo con Raj: anche la reazione negativa delle pur bravissime donne dell’industria editoriale indiana è improntata a un cliché: le donne che in India faticano a imporre la loro indipendenza, a guadagnarsi il rispetto, rispondono poi a ogni visione critica con un riflesso da politically correct. Cliché contro cliché.

Che dire? L’ho fatto, ho rifiutato il manoscritto. Gli ho anche dato dei consigli, ho capito l’intenzione, ho criticato il risultato. Gli ho augurato di trovare un editore indiano. Gli ho raccontato qualche balla di troppo sul mercato librario italiano. Ho anche provato a girarla dal lato giusto: spiegando per bene cosa intendevo (me lo son riletto due volte nei giorni precedenti all’incontro di Jaipur). Gli ho fatto vedere dove e quando: Raj non era d’accordo, naturalmente.

Ecco che ho fatto, alla fin della fiera: ho scritto questo post, e invece di chiamarlo per nome e cognome, ecco apparire Raj. Raj di qua, Raj di la. Io sono tuo amico. Raj…

Raj Rao, quattro anni fa a Bombay

Avevo trovato il suo The Boyfriend (Il mio ragazzo) in tutte le librerie di Bombay. L’avevo letto, mi era piaciuto.

Non solo avevo scovato quel che cercavo, un romanzo che dimostrasse l’esistenza di un India nuova, contemporanea, capace di affrontare temi che sono anche i nostri, lontana dalle saghe famigliari di villaggio, a base di sari colorati e spezie.

La storia di un amore omosessuale a Bombay aveva la capacità di raccontare la città in molti suoi aspetti: la vita dei professionisti a cavallo tra giornalismo e pubblicità, la relazione tra le caste e i ceti sociali alti e gli intoccabili, anche le bombe e gli scontri tra fondamentalismi religiosi che hanno segnato la storia dell’India. Qualcuno, in Italia, mi aveva fatto notare: è un romanzo di costume, c’è poca letteratura alta. Sì, embè? Perché Pennacchi o la Avallone, allora?

Trovato il contatto, scoperto che il Professor Raj Rao dell’Università di Pune scendeva sempre a Bombay nel weekend, gli ho chiesto un incontro.

Cinquant’anni suonati, nessuna intenzione di esibire la propria omosessualità, Rao mi viene incontro davanti all’ingresso del Regal Cinema, uno dei luoghi simbolo della South Bombay. Non dovrei descrivere così uno dei più grandi scrittori indiani contemporanei, lo so: ma mi ha fatto l’effetto di un cagnolone che ti viene incontro con le orecchie basse, orecchie peraltro parecchio aperte ai lati del viso (una volta si diceva “a sventola”).

E un atteggiamento di dolore composto e trattenuto, una malinconia questa sì esibita, ma senza rancori, senza rimostranze. Vestito con blue jeans e camicia dello stesso colore, mi ringrazia con un certo ossequio per la mia decisione di pubblicarlo in Italia.

Io commetto l’errore tipico dei quelle mie prime settimane a Bombay: lo invito in un noto ristorante di Colaba, dove la qualità delle pietanze non è necessariamente superiore a quella dei ristoranti popolari (quindi eccelsa), ma lo sono i prezzi, e lo status dei clienti: siamo all’Indigo, giusto alle spalle del Taj Mahal Hotel, cucina fusion tra la francese e l’indiana, molti bianchi, indiani giovani stile Bollywood (cioè l’aria tamarra, camicia aperta sul petto, oro ai polsi e barba non fatta), indiani anziani stile funzionario di governo (kurta bianca e pancia prominente, arrivati sulla vecchia Ambassador bianca con autista e lampeggiane sul tetto).

È evidente la timidezza di Rao in questo ambiente, ma anche qui dovrei dire: timidezza contenuta, che non gli impedisce di richiamare un cameriere per precisare la sua ordinazione, ma vedo che gli sguardi che si lancia attorno sono di controllo. Preferisce un tavolo addossato al muro, e a tratti mi parla appoggiandosi con una spalla al muro stesso, un gesto da ragazzo.

Leggendo i suoi racconti (quelli che abbiamo appena pubblicato), avevo capito che mi trovavo di fronte a un autore di livello, ben determinato a non nascondere, anzi a rilevare nella scrittura la propria omosessualità.

Un intellettuale che nel corso di una già lunga vita ha affrontato le ovvie difficoltà (recentemente ha vinto una battaglia in università per ottenere il posto che gli spettava di diritto, Vice-Chancellor), e che si è abituato a muoversi con il passo lento e regolare di chi sta camminando in salita, su per un ghiaione di alta montagna, cercando di mantenere la propria velocità al di sotto della soglia aerobica (insomma: senza doversi fermare ogni cinquanta passi per il fiatone), tenendo per sé una fatica di cui è meglio dimenticarsi, senza stare mai a domandarsi perché si è scelto di camminare in salita, ma continuando passo dopo passo, difendendo l’integrità e la serenità del proprio pensiero: una libertà sotto tutela, insomma.

Ripensandoci, è quando gli ho chiesto quanto la propria condizione di omosessuale lo mettesse in pericolo in questa India ancora pervasa di fondamentalismo religioso e maschilistiche ovvietà, che Rao si è per la prima volta appoggiato con la spalla al muro, parlandomi.

Dopo la cena mi ha portato nel luogo simbolo del suo romanzo, tappa fondamentale della propria esistenza: il Testosterone, discoteca gay aperta da un decennio a Bombay lungo l’Apollo Bunder, in faccia al Gateway of India, a due passi dal Taj e soprattutto di fianco al Radio Club, un circolo tutto legno e vetri smerigliati per ricchi signori che immagino disturbati da una tale contiguità. Dal Testosterone escono i protagonisti de Il mio ragazzo la notte nella quale, rompendo davvero gli schemi, invece di lasciarsi intimidire da due poliziotti con i baffoni regolamentari (che sono lì, come è ovvio, a pretendere il servizietto gratis, lo stupro della Legge), li pestano per bene, tra le risate.

All’ingresso Raj mi presenta al cassiere, un po’ spaventato della mia presenza (scoprirò di essere l’unico bianco all’interno, l’accordo con le autorità quattro anni orsono era: non coinvolgete i turisti, tanto meno quelli in cerca di ragazzini; il Testosterone resta aperto, pare, grazie ai favori di qualche alto papavero, per motivi non specificati, con le intuibili relazioni di vassallaggio che Rao ben descrive ne Il mio ragazzo).

Sono il suo editore italiano, voglio vedere i luoghi descritti nel romanzo. Dentro, in un antro scuro che pare un centro sociale, con pochi tavolini e tanti ragazzi appoggiati alle pareti, i pochi che stanno ballando si ritraggono, al nostro ingresso. Raj mi chiede di aspettarlo e va a salutare qualcuno. In realtà, mi spiega, deve rassicurarli. Due ragazzini, con un po’ di trucco sugli occhi, mi si avvicinano con qualche moina. Rao mi dirà: sono molto pericolosi, anche violenti, il padrone non riesce a tenerli fuori dal locale.

Ritorno in India

Quando pubblicammo Il mio ragazzo di Raj Rao quasi due anni fa, Mario Fortunato ne scrisse sull’Espresso: «E’ un romanzo che farei leggere nelle scuole». Era la storia di un amore omosessuale a Bombay, scritta da un attivista per i diritti dei gay in India.

Questi sono invece i racconti di uno scrittore colto, raffinato, ironico, capace di scandagliare luoghi e persone della sua città come pochi altri. R Raj Rao è dotato di una versatilità non comune che gli consente di presentarci una finta intervista al famoso scrittore, o lo schema di un trattamento per la televisione, oppure la storia di una relazione omosessuale attraverso le lettere che i due protagonisti si scambiano.

Sa anche essere esilarante, come ne L’assassinio di Salman Rushdie il cui protagonista non è che il proprietario di un’officina meccanica, ma è quasi il sosia del famoso scrittore, e si trova a firmare autografi, e poi a cercare di sottrarsi al linciaggio da parte di un gruppo di fondamentalisti islamici, apparendoci sempre come più simpatico, più umano e meno carogna del suo celebre alter ego.

C’è una critica alla società letteraria, nei racconti di Rao, e il personaggio che visita la Trinidad, patria di V.S. Naipaul, non sembra aver peli sulla lingua.

Ma c’è anche un giovane adulto, figlio di un ferroviere, che percorre l’India in treno spinto da una propria ossessione, o un giornalista cosmopolita che appunta sul proprio block notes il disappunto per la visita imminente di un parente indesiderato.

E poi il racconto che dava il titolo alla accolta originale in inglese, quel quasi intraducibile One Day I Locked My Flat In Soul City, di cui noi non potevamo rendere in italiano la musicalità e il ritmo, allucinato resoconto di un uomo che, uscendo di casa, si trova immerso in una fiumana di persone in cammino verso una meta sconosciuta. E accompagnarla, questa massa indistinta di corpi odori rumori gesti e espressioni, è facile, ma risalire la fiumana per tornare a casa è ardua impresa. E una volta ritornati, con fatica, al proprio appartamento, si chiude la porta a chiave.

È bello tornare in India dopo dodici mesi (dopo Dangerlok di Eunice De Souza). È bello ritornare nella Smog City di Amruta Patil che abbiamo visto a Ferrara di recente, e ritrovarla SOUL. È bello chiamarla Bombay, come fanno gli scrittori, e non Mumbai, come fanno i partiti della destra induista.

Godetevi questa intervista: un intellettuale vero.

Autobiografia di un indiano ignoto è in libreria da oggi, 16 novembre.

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