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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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    • Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra
    • E adesso? su Bnews (Università Bicocca)
    • Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan
    • A Yi e Chan Ho Kei su Alias
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Tutti i post su citazioni

Da E adesso?, di A Yi

La mattina sono andato di buonora al mercato delle pulci. Ho girato a lungo prima di trovare qualcuno che se ne intendesse. Era un tale con il volto scavato, i capelli bianchi e gli occhiali da presbite; dallo sguardo sembrava una persona onesta. Speravo facesse la stima, pagasse e arrivederci. Dopo aver esaminato il pezzo, è ammutolito. Ho domandato qual era il valore. Ha balbettato come per parlare, ma ha desistito ed è rimasto a fissarmi imbarazzato. Quando l’ho sollecitato, ha chiesto: «Secondo te, ragazzo?».
«Sono io che lo chiedo a te, sei tu l’esperto».
Ha sfiorato il Buddha con il pollice: «Per essere giada, è giada, ma è un tantino torbida».
«Quindi?»
«Cinquecento».
Mi sono ripreso il Buddha: «Comprati gli spaghetti precotti con i cinquecento yuan».

Da E adesso?, di A Yi

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Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag

Quando tornai in Thailandia alla fine degli anni Novanta, il paese era in un caos peggiore del solito a causa del crollo dell’economia asiatica. Ero stato via per quasi quattro anni e mi ero ormai abituato alle strade ordinate di Melbourne. Non volevo lasciare l’Australia e tornare nella caotica città in cui ero nato, ma la mia borsa di studio si era esaurita senza che mi fossi laureato e le mie prospettive erano tutt’altro che rosee. Mio padre era malato; un fatto che mia madre continuava a sottolineare. Erano impazienti che tornassi per dare il mio contributo alla società thailandese, che ai loro occhi stava per essere radicalmente trasformata, di nuovo, ma quella volta per via della situazione economica. Avevano partecipato al movimento studentesco a metà degli anni Settanta e restavano aggrappati a qualsiasi ideale scampato al naufragio di quella breve fioritura di democrazia. Mi avevano cresciuto facendomi capire che si aspettavano di vedermi proseguire dal punto in cui loro avevano lasciato. Avevano detto che era la mia occasione per farlo.
Tornai malvolentieri e trascorsi i primi mesi vivendo con i miei genitori, aiutando ad accudire mio padre, evitando i tentativi di mia madre di trovarmi un lavoro e sentendomi in colpa perché non ero in grado di mantenermi. Mi impegnai seriamente a far rivivere l’idealismo precario della mia giovinezza, riuscendo a convincermi che risvegliando la coscienza collettiva sarebbe stato possibile promuovere il tipo di cambiamenti cruciali per il futuro della Thailandia, il tipo di cambiamenti che i miei genitori sembravano ansiosi di vedere prima di morire. A tale scopo mi dedicai al giornalismo e iniziai a scrivere sulla crisi nazionale e sulle ingiustizie nella nostra società. Non ero ambizioso. Salvare la Thailandia non era nei miei programmi. Volevo solo dare un contributo decente. Ma non avevo previsto l’indifferenza che avrei incontrato. Né mi ero reso conto di quanto era difficile vivere in una città in cui mi sentivo come un attore: recitavo una parte che era stata scritta per me, non quella che avevo scelto o che avrei potuto scegliere.

Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag

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Da I miei luoghi, di Annie Zaidi

Le porte di una «resa» benevola erano state sbarrate più o meno nel 2004. L’allora ispettore capo della polizia, Sanjay Rana, mi disse categoricamente che ai Gadariya non sarebbe più stata concessa la possibilità di negoziarne i termini. Sarebbero stati arrestati, oppure uccisi durante uno scontro a fuoco.
Il massacro di Bhanwarpura, in cui tredici Gujjar erano stati sequestrati all’alba, legati mani e piedi e uccisi a sangue freddo, aveva scosso le coscienze. Il consenso dell’opinione pubblica calava sempre di più.
Eppure non era una questione semplice, un mucchio di criminali che uccide un gruppetto di contadini indifesi. In India, niente è mai così semplice. Le vittime erano perlopiù Gujjar, una comunità in posizione relativamente dominate nella regione, seconda solo ai Thakur in quanto a terre, denaro e potere. Molti uomini di loro portano armi e si spostano a cavallo più per status symbol, che per necessità. Il 70 per cento delle armi della fascia del Chambal sono in effetti di proprietà di Gujjar e Thakur. I Gadariya, al contrario, sono poveri caprari. Non hanno peso politico, e pochi di loro posseggono armi.

Da I miei luoghi. A spasso con i banditi e altre storie vere, di Annie Zaidi

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Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag

All’età di quarantun anni Marisa emerse dal suo anno sabbatico come una persona diversa, con un nuovo look più discreto e un atteggiamento che non poteva sfuggire a chi la conosceva. Nonostante il viso fosse un po’ più pieno, era sempre bella e poteva passare per una donna sui trent’anni. Le malelingue dissero che si era rifatta il seno e che il suo nuovo look era dovuto a un personal stylist australiano che chissà quanto le era costato. Ma in generale concordavano tutti nel dire che non era mai stata così elegante e che il risultato della trasformazione era splendido.
Era come se la ragazza della porta accanto che aveva vissuto una favola fosse cresciuta. Invece di abiti appariscenti, ora indossava tailleur pantalone ben tagliati. Via collane e braccialetti d’oro, ora sfoggiava diamanti e solo in occasioni speciali. Aveva sostituito l’auto sportiva con un modello più sobrio. I lunghi capelli erano stati tagliati corti e le davano l’aspetto impeccabile e scattante di una donna attiva capace di guardare avanti. La sua immagine era stata radicalmente trasformata. Non era più un bell’oggetto in mostra ma il pezzo raro di una collezione visibile solo per appuntamento.

Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

«Non so cantare», mente Ling, anche se in realtà ha una voce cristallina e intonata.
«Ma certo che sì», risponde la donna, imperturbabile.
«In un….».
«Lounge bar. A Singapore».
«A Singapore?» ripete Ling, sbalordita. Non è mai uscita dalla Cina. È stata una volta a Pechino e a Macao e due a Shanghai. È come se la donna le avesse offerto di volare fin sulla luna.
«Ti pagherò. Molto più di quanto guadagni adesso, questo è certo. Che lavoro fai?»
«Assistente di laboratorio».
«Con il tuo aspetto… in un laboratorio sei sprecata».
«È un buon posto».
«Ma non ti basta».
«E lei come lo sa?»
«Conosco le ragazze come te».
«Ah sì?»
«Tu vuoi di più».
«Non sono uno stereotipo».
La signora Fung la guarda per un istante. «Mai detto che lo fossi».

Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

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Da I nove continenti, di Xiaolu Guo

«Come?» ha urlato la mia povera madre. «Hai appena partorito?»
«Sì. È mezza cinese e mezza occidentale».
«Santo cielo! Eri incinta?»
Dopo qualche secondo di silenzio da parte sua, ho pensato che, se non altro, forse avrebbe chiesto quale fosse il nome della bambina, e invece ha detto: «Pensi di tornare per la festa del Qingming?».
Qingming è un giorno di aprile in cui rendiamo omaggio ai defunti. Puliamo le loro tombe, bruciamo incenso e preghiamo. Io non rispondevo, stavo solo a sentire i suoi singhiozzi arrabbiati attraverso il telefono.
«Dovresti tornare! Non sai neanche dov’è sepolto tuo padre! Voglio spostare le ceneri di tua nonna dal villaggio e metterle vicino a tuo padre. La tua presenza sarebbe opportuna».
Stavolta, ho pensato, non ho scuse da opporre. Nessuna. Potrei andare a chiudere definitivamente i conti in sospeso. Sono solo dodici ore di volo, posso farcela. Durante tutta la mia vita adulta ho evitato il più possibile di tornare nella mia casa d’infanzia. Shitang, il paesino di pescatori nel quale sono stata testimone della povertà e della depressione dei miei nonni, è un luogo che ho finito per detestare. Wenling, dove ho trascorso l’adolescenza, culla dei miei rapporti travagliati con le autorità, mi ripugnava. Quando nel 1993 me ne sono andata per studiare a Pechino, ho promesso a me stessa: è finita, in questo buco soffocante non ci torno più. Dieci anni dopo, quando ho lasciato la Cina per l’Inghilterra, mi sono detta: d’ora in poi, basta lavaggi del cervello ideologici. Non mi lascerò intralciare dalle mie putride radici contadine. Ora però è giunto il momento di affrontare il passato.

 Da I nove continenti, di Xiaolu Guo

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Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han

Ricordo che a un certo punto, non so perché, lei si era voltata per andarsene, forse infastidita dalla mia insistenza. Allungai il braccio, come per trattenerla, benché ci separassero decine di metri, e oh! scivolai giù.

Ho dimenticato la sensazione della caduta libera. Il tempo di un respiro e piombai sui materassini, tra urla e schiamazzi, ma con il buio dell’impatto negli occhi. Finii tra due materassini, quindi sulle cartelle, poi mi beccai l’angolo di un libro sul pisello, un male! Era uno zaino giallo dei Cavalieri dello Zodiaco, con il mio idolo, Phoenix! Sopportando il dolore, tirai fuori il libro che mi aveva colpito, era un sussidiario di una classe superiore che rinfilai nello zaino, calcandolo dentro, mentre Phoenix mi fissava, dico davvero: ci parlavamo con gli occhi. Dopo di che le voci intorno si fecero vaghe e provai un senso di costrizione al petto e allo stomaco. Gli insegnanti corsero da me, battuti sul tempo dal maestro Liu e dalla coordinatrice, che mi presero tra le braccia chiedendo, concitati: «Cosa stai dicendo? Parla più forte. Cosa hai detto? Parla più forte, parla più forte».
Esaurii le forze che mi restavano in corpo per pronunciare una parola; l’avevo detta perché arrivasse alla bambina, era la voce del mio profondo. Nella mia testa c’era solo lei. Era la prima volta che provavo l’estasi dell’amore e grazie a quella ragazzina avevo annientato il dolore fisico. Esanime, mormorai più volte quella parola, aggrappato al colletto della coordinatrice: «Phoenix».

Mi risvegliai nell’ambulatorio, accanto a una copia di «L’eco locale», il quotidiano del Centro culturale della nostra città che in quarta pagina aveva un titolo sensazionale: «Alunno delle elementari di Tingxinxiang si arrampica sull’asta della bandiera. L’intero istituto accorre in suo aiuto».

Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han

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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

Chiusa in bagno, Chang Mari sentì la voglia improvvisa di ridurre in brandelli il suo gesso e di strapparsi a unghiate la carne del braccio fino a farlo sanguinare. Un attimo dopo però si convinse che quel tipo di comportamento non si confaceva a una donna adulta come lei, e quindi desistette dal suo intento. Si spruzzò sull’abito un po’ di deodorante e l’odore di mentolo si mischiò a quello di ammoniaca. Aprì la finestra. Il davanzale era cosparso di cenere caduta dalle sigarette consumate da alcune dipendenti: apparentemente erano in tre a fumare in quel bagno, tre impiegate di tre aziende diverse che si incontravano lì a spettegolare tra un tiro e l’altro, come vecchie comari.
Si lavò le mani con il sapone e tornò a sedersi alla scrivania. Il capo era scomparso dalla circolazione. Incapace di fare alcun pronostico su quella giornata, si limitò ad augurarsi di riuscire almeno a vendere un’auto al cliente che avrebbe dovuto incontrare di lì a poco. Diede uno sguardo al suo taccuino per verificare se le sfuggiva qualche altro impegno e, scorrendo gli appunti sul calendario, le tornò in mente che due giorni dopo sarebbe ricorso l’anniversario della morte del padre. Provò un leggero senso di colpa nell’accorgersi di essersi dimenticata di quella data a soli due anni dal funerale.

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

Perché toccava a lei cucinare la domenica? Si era infuriata e avevano litigato. Alla fine, lui si era buttato la giacca sulle spalle ed era uscito in fretta, chissà dove era andato, e non era tornato fino all’alba. Sapeva che non gli andava per niente a genio che lei studiasse pittura, ma in realtà ciò che proprio non sopportava era che avesse contatti con altri uomini. Già non era contento che passasse una sera alla settimana a casa del maestro per la lezione, e il giorno prima, vedendola tornare a casa tardi, si era insospettito subito. Per fortuna lavorava, faceva la commessa nella cartoleria vicina, e tutto il materiale per la pittura lo comprava con i suoi soldi, così lui non poteva proibirle di continuare a studiare. Ora poi che andava a dipingere anche la domenica mattina lui era, se possibile, ancora più scontento, e aveva cercato una scusa per litigare.

Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

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Da Lancio a effetto, di Omar Shahid Hamid

Di notte, il deserto può far paura. Il buio cala in un attimo sul paesaggio spoglio. La notte porta con sé un gelo che penetra fin nelle ossa. Ma la cosa più snervante è il silenzio. Il minimo rumore si amplifica a dismisura riecheggiando negli immensi spazi vuoti. Il latrato di uno sciacallo solitario risuona come una minaccia. La sparuta vegetazione proietta ombre sinistre mentre il vento, sibilando, solleva manciate di polvere che danzano eteree alla luce della luna. In un posto del genere, la mente inizia a giocare tiri mancini ai sensi. Ogni sagoma, ombra o rumore veicola una sensazione intrinseca di paura.
Ciò era vero in special modo per il gruppetto di poliziotti riuniti intorno al fuoco in un angolo particolarmente desolato del deserto di Nara. Avevano allestito il loro piccolo accampamento tra due costruzioni a un solo piano in mezzo al nulla. Per trovare la traccia di civiltà più vicina bisognava varcare il confine con l’India, a due chilometri di distanza. Anche le costruzioni erano fatiscenti, porte, finestre e infissi vari asportati da lungo tempo. Solo in una stanza, nel più grande dei due edifici, spiccava una nuova serie di lustre sbarre d’acciaio alla finestra. La strada che portava all’accampamento era poco più di un sentiero sterrato. All’ingresso c’era una vecchia insegna, che ormai penzolava dai cardini: identificava quel complesso come La Scuola di Zootecnica del Dipartimento forestale.

 Da Lancio a effetto, di Omar Shahid Hamid

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