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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su corea del sud

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

Dopo essersi accertato che il suo impiegato fosse tornato a sedersi al suo posto, riaprì la pagina di Outlook. Chiuse tutte le altre finestre e si apprestò ad aprire l’ultima. Così facendo, finalmente comparve sul monitor il messaggio finale.
Giara di polpi,
che nutrono sogni fugaci
ai piedi di questa luna d’estate.
Kiyŏng deglutì ma la saliva, scendendo, sembrò raschiargli la gola. Prese allora la tazza, posata accanto al suo mouse, e bevve un sorso di caffè, ormai freddo. Se la sua memoria non faceva cilecca, quell’haiku era il segnale in codice che corrispondeva all’ordine numero quattro. Si voltò indietro e prese da uno scaffale il volume 53 di una raccolta internazionale di poesia. L’haiku del poeta giapponese Matsuo Bashō era riportato a pagina 67. Le sue mani cominciarono a sudare. Provò a scaricare la tensione chiudendo e riaprendo le dita: no, non gli sembrava vero. Sottrasse dal numero 67 il suo anno di nascita: 63. Il risultato era effettivamente quattro.
Quell’haiku era preceduto dal verso introduttivo Trascorro una notte ad Akashi, una città famosa in Giappone per la pesca di polpi. I pescatori, approfittando dell’abitudine di questi molluschi di inserirsi in ogni fessura, lasciavano di sera, in mare, delle giare di terracotta. Il giorno dopo le riportavano a riva piene di polpi intrappolati all’interno e, dunque, dentro quelle giare, si consumava l’ultimo sogno di quei molluschi.
Kiyŏng sfogliò il volume. Era stato Yi Sanghyŏk della divisione n. 35 a riscoprire negli anni ’80 la pratica di sfruttare poesie e libri per criptare codici segreti. Grazie a quel sistema non erano più necessarie tavole di numeri casuali, né tantomeno radio a onde corte: bastava soltanto qualche raccolta di versi e un po’ di memoria e il gioco era fatto. Allo stesso ordine numero quattro potevano associarsi le poesie più disparate: sonetti di Pablo Neruda o aforismi di Khalil Gibran, ma l’angosciosa malinconia di quell’haiku rendeva meglio la portata emotiva dell’ordine che gli corrispondeva. Quei versi erano scarni come un cammello che aveva valicato un’immensa distesa desertica e, al di là delle loro possibili sfumature, trasmettevano un secco e inequivocabile messaggio.
Abbandona ogni cosa e rientra immediatamente. Una volta emesso, quest’ordine non sarà più revocato.

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

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Da Pavana per una principessa defunta, di Park Min-gyu

Lei era lì, in piedi sotto la neve.

Il primo giorno di neve… e io compivo vent’anni. Ricordo la lunga, triste distesa di risaie vuote, qualche albero sparso… la penombra oltre il finestrino e il pullman che sfrecciava verso la periferia. Percorremmo chilometri senza scorgere anima viva. Lei… ci sarà? Dubitai fino all’ultimo. Il pullman rallentò. Una radio gracchiava, ma io riuscii a distinguere Auld Lang Syne suonata da un’armonica. Forse… ci sarà, pensavo con la fronte appoggiata al vetro gelido. A poco a poco l’oscurità prevalse sul crepuscolo e avvolse il pullman, che si fermò qualche decina di metri più avanti, come per inerzia. Lei era lì, sotto la neve, all’ombra di un cartello inclinato che sembrava uno spaventapasseri con un braccio rotto.

Avevo appena posato i piedi a terra che il pullman ripartì, e mentre cercavo di ritrovare l’equilibrio, ebbi l’impressione che la terra stesse cedendo. Non si trattava di un’illusione: la terra continuava a girare anche nell’oscurità… Lei c’era. Eccoci lì, uno di fronte all’altra… inevitabilmente, come la Luna che segue la sua orbita malgrado i nostri occhi non ne percepiscano il movimento.

Da Pavana per una principessa defunta, di Park Min-gyu

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Pavana per una principessa defunta su Internazionale

Internazionale ha ripreso una recensione della rivista Kirkus Reviews per segnalare Pavana per una principessa defunta, il nuovo libro di Park Min-gyu appena uscito per Metropoli d’Asia.


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Pavana per una principessa defunta

Pavana per una principessa defunta, di Park Min-gyu

 

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Il protagonista di questo romanzo, segnato dalla separazione dei genitori (il padre, un bellissimo uomo diventato star del cinema, ha abbandonato lui e la madre, una donna dall’aspetto insignificante), conduce un’esistenza inconcludente. Trova lavoro nel parcheggio di un grande magazzino, dove conosce una ragazza molto brutta e stringe amicizia con un collega più grande di lui che ama molto filosofeggiare e bere birra. Siamo a metà degli anni Ottanta a Seul, un periodo di boom economico. Il protagonista, che ha ereditato la bellezza dal padre, si avvicina alla ragazza, e lentamente nasce un rapporto sempre più profondo e delicato. Con la complicità del collega, si crea un terzetto che trascorre insieme la maggior parte del tempo libero, in un viaggio di conoscenza reciproca e di amicizia bruscamente interrotto dal tentato suicidio dell’amico e dall’improvvisa partenza della ragazza. La ritroverà dopo molte ricerche: la storia sembra destinata al lieto fine, ma un tragico incidente spezzerà questo sogno, che però riprenderà qualche anno dopo, sotto altre forme, in un gioco di prospettive e punti di vista discordanti dove niente sarà più come sembrava un tempo. Con uno stile caratterizzato da continui rimandi tra il presente e il passato e frasi spezzate come la memoria dell’io narrante, Park Min-gyu affronta con sguardo ironico e incisivo la frenesia della società contemporanea e i suoi miti di progresso.

Se in quel momento non mi avesse stretto la mano e non avesse posato piano la sua testa sulla mia spalla… non sarei stato capace di respirare, né di aprire gli occhi in quel mare profondo dove non c’erano più pesci. Appoggiati l’uno all’altra, non parlammo più, ascoltammo semplicemente la musica, con un auricolare a testa. Let me take you down, ’cause I’m going to Strawberry Fields. Nothings is real and nothing to get hung about. Strawberry Fields forever.

Non esiste un luogo eterno, come non esiste un uomo eterno, ma quella notte cominciai a credere che determinati ricordi possano esserlo. Quell’autobus procedeva in direzione di Seul lento come un carretto… All’interno l’aria era pesante e si percepiva una puzza di sterco di cavallo e di piedi, dato che un passeggero si era tolto le scarpe. Percepimmo quell’odore come se fosse stato sprigionato dai nostri corpi. Usciti dalla stazione dei pullman, le abbottonai il cappotto fino al collo, poi attraversammo il piazzale e il passaggio sotterraneo avvolti dall’oscurità, infine prendemmo un altro autobus per rientrare a casa. Non brillava nessuna luce colorata, ma per me, in quel momento, la notte rappresentava il Natale. Era Natale.

«Tra gli autori coreani più conosciuti del nuovo millennio, Park Min-gyu scrive con stile leggiadro e arioso di argomenti molto profondi e spinosi, provando sempre grande empatia per i cosiddetti “perdenti” esclusi dalla massa».
List

«A volte si ride di fronte alla rigidità quasi caricaturale dei rapporti sociali coreani, altre volte ci si commuove per l’esclusione, il disprezzo e la silenziosa sofferenza provocati da una diversità rifiutata e punita dalla società imperante. Questo romanzo disseminato di musica, da Ravel ai Beatles a Bob Dylan, è una bellissima scoperta».
La cause littéraire

Traduzione dal coreano di Benedetta Merlini

Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

Sono tutti convinti che Ŭnhŭi sia mia nipote. Rimangono a bocca aperta quando scoprono che in realtà è mia figlia. Come dar loro torto! Io ho settant’anni e lei, invece, appena ventotto. Ovviamente la prima che si è incuriosita di questa anomalia è stata proprio la diretta interessata: Ŭnhŭi. Quando aveva sedici anni a scuola le hanno insegnato cosa fosse il sangue. Il mio, di tipo AB, è incompatibile con il suo, di gruppo 0. Quando mi ha chiesto spiegazioni, io, come tendo a fare di solito, mi sono limitato a dirle la verità: l’ho adottata.
Da quel momento mi è sembrato che la nostra relazione abbia subito uno strappo. Lei mi è parsa impacciata, come se non sapesse più come rapportarsi con me, e questa distanza tra noi non si è più colmata. È come se, a partire da quel giorno, l’affetto che ci univa si fosse completamente smaterializzato.
Avete mai sentito parlare della sindrome di Capgras? Ebbene, si tratta di una malattia che influenza l’area cerebrale che controlla le emozioni. Chi ne è colpito riconosce i propri familiari ma non è in grado di provare affetto nei loro confronti. Per esempio, un marito comincia a sospettare della moglie; riconosce le sue fattezze, ma la considera un’estranea. Chi è colpito da questa sindrome si convince che le persone che ha intorno siano tutte sosia dei suoi familiari e che lo vogliano truffare. Beh, per farla breve, a partire da quel giorno Ŭnhŭi ha cominciato a vivere con distacco quel piccolo mondo che ci avvolgeva, quella famiglia composta solo da me e lei. Ciò nonostante, abbiamo continuato a vivere sotto lo stesso tetto.

Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

K era tornato dopo cinque anni di assenza solo quando aveva saputo della scomparsa della madre. Dopo aver lasciato la scuola superiore era andato via di casa, e da allora era cambiato molto più di quanto ci si potesse aspettare. Il giorno del funerale, K aveva comunicato che preferiva non partecipare alla cerimonia: né il fratello né altri avevano cercato di fargli cambiare idea. E proprio nel momento in cui la terra ricopriva la bara della madre, lui se ne stava lì sul divano a spassarsela con Giuditta. C aveva messo a confronto la fatica che aveva fatto per organizzare il funerale della madre con il piacere carnale del fratello. Si era sentito stanco. Una volta entrato in camera da letto, si era addormentato con i vestiti ancora addosso.

Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

«Come esistono persone che fanno collezione di spade o guardano solo film improponibili…», aveva provato una volta a giustificarsi, «…così esistono anche persone che si dedicano al porno: che cosa c’è di male?».
Kiyŏng non aveva potuto fare altro che limitarsi ad assecondare quell’arringa, trattenendo un commento che sarebbe suonato più o meno così: «Caro mio, è tutta questione di fascino. Se tu avessi anche una micropuntina di fascino, questo tuo vizietto non creerebbe problemi a nessuno. Difatti, da uno che ha fascino si accetta di tutto: azioni immorali, menzogne e perfino crudeltà di ogni tipo. Al contrario, nessuno potrà mai perdonare a un povero spelacchiato come te, per giunta ridotto a lavorare in un’azienda sfigata come la nostra, il vizio di essere un maniaco sessuale!».

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

Ho fatto una risonanza. Mi sono steso su un lettino – una sorta di bara bianca – e sono stato inghiottito dalla luce. Mi è sembrata un’esperienza ai confini della morte. Ho immaginato di librarmi nell’aria e di osservare il mio corpo dall’alto. La morte gli era proprio a fianco. Ormai era chiaro. Non mi restava molto da vivere.
Dopo una settimana mi sono sottoposto a un test sulle capacità cognitive e su qualcos’altro che non ho capito bene. Il medico mi ha posto dei quesiti a cui dovevo rispondere. Le domande erano semplici, eppure non trovavo le risposte. Mi sentivo come quando infili le mani in una vasca piena di pesci e, appena cerchi di tirarne fuori uno, quello ti sguscia tra le dita. «Chi è l’attuale Presidente della Repubblica? E in che anno siamo? Provi a ripetere tre delle parole che ha appena ascoltato. Quanto fa diciassette più cinque?» Avevo tutte le risposte sulla punta della lingua, ma non riuscivo a pronunciarne nessuna. Lo sapevo eppure non lo sapevo: Dio mio, com’era possibile?
Alla fine degli esami ho incontrato il dottore. Aveva un’espressione tutt’altro che radiosa.
«L’ippocampo si è atrofizzato», ha affermato leggendo il referto della mia risonanza. «Non ci sono dubbi: lei è affetto da Alzheimer. Non sappiamo a che stadio, però. Per capirlo dovremo tenerla sotto osservazione».
Ŭnhŭi, che mi era seduta accanto, è sprofondata in un silenzio di tomba.
«I suoi ricordi scompariranno un po’ alla volta», ha aggiunto il dottore. «Questo fenomeno riguarderà prima la memoria a breve termine e i ricordi recenti. Possiamo sempre cercare di ritardare questo processo, ma non saremo in grado di interromperlo. Per il momento la prego di prendere con regolarità le medicine che le prescrivo. Poi tenga un diario di tutto ciò che le accade e lo porti sempre con sé. Sa, è probabile che in futuro non sarà nemmeno più in grado di tornare a casa da solo».

Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

L’auto con a bordo C e Giuditta era ferma ormai da cinque ore sull’autostrada all’altezza del valico di Hangye. Al suo interno i due non facevano nulla, se non attivare ogni tanto il tergicristallo per rimuovere la neve che si accumulava sul parabrezza. Alla radio stavano dicendo che una bufera del genere non si vedeva da vent’anni. La causa apparentemente era una saccatura formatasi in Cina che si era scontrata con una massa d’aria proveniente dalla Siberia. Le auto in fila sulla carreggiata non si muovevano di un millimetro e le catene non potevano nulla contro quella neve che si era depositata fin sul paraurti.
Nei paraggi non si scorgevano abitazioni e, come se non bastasse, stava calando il buio. Il cielo era stato plumbeo fin dalla mattina, e dopo le cinque l’oscurità aveva completamente inghiottito il paesaggio circostante. Quando C fece per mettere in moto il tergicristallo, Giuditta, intenta a limarsi le unghie, interruppe quel lungo silenzio.
«Lascia perdere. È meglio non vedere quello che c’è  fuori».
Quando il tergicristalli si fermò, bastarono pochi attimi perché tutto il parabrezza si coprisse di neve. L’interno dell’auto era buio e a malapena si vedevano, diafane, le luci dei fari. C riusciva a distinguere solo il profilo di Giuditta. In fin dei conti, sebbene la vista fosse affaticata dall’aria secca dell’auto, quell’atmosfera era confortevole.

Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

Si era sempre salvato con un semplice espediente: il ricatto. Se fosse stato accusato, avrebbe potuto rivelare i nomi di personaggi molto in vista che si procuravano il fumo da lui. Ciò che Mari non riusciva davvero a concepire era come fosse possibile che quei divi, una volta rimessi in libertà, tornassero da lui come se niente fosse e senza provare neanche una punta di rancore nei suoi confronti: si era rassegnata a credere che fosse un altro effetto causato dalla dipendenza. Quell’uomo sembrava nascondere un talento che gli consentiva di ammaliare gli altri, eppure più lo guardava e più le sembrava un maestro di banalità, un qualunquissimo uomo di mezza età. Non superava il metro e settanta di altezza e anche il suo viso non era certo quello di un Adone. Lavoravano insieme già da cinque anni, ormai, e ciò nonostante non aveva mai trovato in lui nulla di attraente. Eppure si era già sposato per la seconda volta, tra l’altro con una ex modella, e anche dopo il matrimonio era sempre circondato da ragazze: a Mari non restava che pensare che avesse delle doti nascoste.

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

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