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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Nabarun Bhattacharya segnalato su Il Messaggero

Il libro Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya, è stato segnalato su Il Messaggero in relazione alla presentazione del documentario dedicato all’autore nel corso di Asiatica Film Mediale.

Il libro s’intitola “Gli ammutinati di Calcutta” ed è l’ultimo romanzo di un grande scrittore indiano, Nabarun Bhattacharya, scomparso due anni fa. Metropoli d’Asia, la casa editrice che l’ha pubblicato in Italia, la descrive come una storia «di mendicanti, scheletri, fantasmi, dischi volanti e governanti corrotti in una fantasmagorica Calcutta».

(continua a leggere su Il Messaggero)


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Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya

In libreria

Due gang rivali sul finire del XX secolo si scontrano e si incontrano in una fantasmagorica Calcutta. La prima gang è composta dagli iconici Fyataru, un gruppo di angeli punk dal retrogusto anarchico che vivono ai margini della società e combattono le disgustose ipocrisie di un sistema politico e burocratico stantio, malvagio e corrotto. Con i loro poteri sovrannaturali, fra cui spiccare il volo al solo pronunciare un cacofonico mantra e lanciare bombe di escrementi umani in testa ai ministri corrotti, i Fyataru mirano ad eliminare tutti gli “ismi” e tutti gli “scismi” che tormentano l’umanità urbana. La seconda gang è formata dai Choktor, una setta magica di stregoni tantrici. Seguendo i saggi consigli di un progenitore-sciamano nelle vesti di un uomo-corvo, le due gang si uniscono e danno vita ad un’insurrezione scoordinata e rivoluzionaria.

Calcutta diventa l’improbabile campo di battaglia di una guerriglia diretta contro le forze del Governo a cui partecipano i poveri, gli scontenti, ma anche gli scheletri, i fantasmi e dischi volanti. La polizia è allo sbaraglio, e il Governo è costretto a proporre un trattato di pace con esiti misteriosi.

Cura e traduzione dal bengali di Carola Erika Lorea


Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya

Pagine 288
Euro 15
ISBN 9788896317648 

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Le torri del silenzio su Indian words

Il sito Indian words ha dedicato una recensione a Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry, mettendo in particolare l’accento sul contesto di riferimento del romanzo, i riti funerari della comunità dei parsi in India.

Il mondo dei portatori di cadaveri, che vanno a prendere a casa i morti per portarli alle torri del silenzio su un catafalco, è descritto con molta vivacità: al pari degli intoccabili induisti, sono dei reietti, impuri per il contatto con i cadaveri, che per di più non disdegnano l’alcol per affrontare un lavoro ingrato e faticoso.
Il tutto, sotto forma di diario, è trattato in modo ironico, nonostante le disgrazie che capitano, e nonostante l’ambientazione decisamente mortuaria.
Anzi, in realtà, proprio il ritrovarsi in mezzo ai morti è l’aspetto più originale di questo libro: cadaveri che cadono dal catafalco, morti trafugati in piena notte sono alcune delle scene tragicomiche dal sapore grottesco raccontate nel romanzo.

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Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry

«Il mio Keko, mio marito, non era un uomo qualunque. Non possedeva niente, tranne i suoi sogni e i suoi gusti ricercati. Tasche vuote, ma si dava un sacco di arie…
«Era pappa e ciccia con i soldati inglesi. Andava a bere con loro nei bar dove i civili non erano ammessi, andava in giro sulle jeep dell’esercito. Entrava negli spacci e prendeva tutte le cose da mangiare che voleva. A quell’epoca funzionava così. Durante la guerra, chi la usava la roba indiana? Solo cose straniere, di ogni tipo. No, la roba fatta in India non si usava proprio». Restituì a Jingo l’elenco di prodotti per la ricerca di mercato senza quasi degnarlo di uno sguardo.
Per un istante Jingo si chiese se protestare e insistere per avere una risposta alle domande per cui veniva pagato. Ma la dolcezza, che già pregustava, di un pomeriggio di pioggia sprecato in quel modo lo rendeva docile e gentile, recalcitrante a darsi troppo da fare.
«Ma era un bell’uomo, il mio Keko… Davvero! Alto, elegante. Non ci si stancava di guardarlo. Diceva…», e lo citò con tono drammatico: «Sono un’anima nata nel corpo sbagliato. Sarei dovuto nascere figlio di maharajah. Oppure dovevo essere Errol Flynn. Anzi, Errol avrebbe potuto farmi da controfigura». Jingo udì una curiosa risatina soffocata. «Era fatto così. Poteva avere tutte le donne che voleva. Ma aveva scelto me…

Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry

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Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

Sentii una bicicletta passare davanti all’entrata del negozio, se così si poteva ancora definire, e il tintinnio di bottiglie che cozzano tra loro. Era il lattaio che faceva le consegne al pensionato di fronte. Evidentemente non trovava niente di strano nel vedere un uomo, che era stato malmenato e non lo nascondeva, appoggiato a quella che, fino a poco tempo prima, era la porta a vento di un telefono pubblico. Anzi, non mi notò del tutto. E perché avrebbe dovuto? C’erano un piccolo bar e un telefono pubblico – e nessuno dei due comprava il latte da lui.
Un motivo per cui ho sempre odiato l’estate è che la luce arriva troppo presto. Il sole prende una scorciatoia di cui nessuno, a quanto pare, conosce l’esistenza e la città diventa grigiastra molto prima che in inverno. Ma il problema è che, almeno in Banamali Nashkar Lane, tutti dormono ancora quando la luce estiva colpisce le porte e le finestre delle case. Tranne i lattai zombie, ovviamente.
Trattenendo il fiato controllai le tasche dei pantaloni. La chiave di casa c’era ancora. Come dare a Uma la notizia? Avrei dovuto fingermi in preda a una crisi isterica e continuare a ripetere maniacalmente i dettagli dell’aggressione? O semplicemente raccontarle i fatti con sufficiente intensità drammatica da farle capire che ero stato vittima di un terribile incidente ed ero gravemente turbato? Come avrei potuto affrontare l’argomento senza ricordarle che mi ero dimenticato di assicurare il locale? Con in mente due modi opposti di descrivere i fatti, mi trascinai su per le scale strette. Mentre lasciavo il mio cubicolo, notai che la luce al neon era ancora accesa e ronzava. Nessuno si era preoccupato di spegnerla con una sprangata.

Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

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Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

Era sempre stato un mestiere ereditario. Generazioni di matrimoni tra consanguinei all’interno delle famiglie appartenenti alla ristretta sottocasta dei portatori di cadaveri – insieme a un isolamento autoimposto e rafforzato dalla società – li avevano resi deformi, goffi e in generale di salute cagionevole. Quindi era davvero triste e disperante che i portatori di cadaveri continuassero a dibattersi nel tentativo di sfuggire alla tirannia che avevano ereditato. Certo, il mio era un caso del tutto inconsueto: di solito rimanevano tutti sbalorditi e increduli nello scoprire che avevo scelto di mia spontanea volontà di sposare la figlia di un khandhia, optando per una vita all’interno delle Torri del Silenzio.
Di diritto, in effetti, io mi colloco a un livello più alto rispetto a un semplice portatore di cadaveri. Prima di prendere servizio alle Torri ho seguito cinque settimane di preparazione nel tempio del fuoco eretto su un’altura di quest’ampia tenuta coperta di boschi, a un tiro di schioppo dalle Torri stesse. Dopo vari giorni di ritiro solitario e purificazione rituale, dopo aver imparato a memoria diversi inni misteriosi in una lingua morta, sono stato iniziato dal gran sacerdote del tempio e proclamato ufficialmente nussesalar.
Questo strano termine dell’avestico antico significa «Signore degli Impuri». Anche i nussesalar sono portatori di cadaveri, non ci sono dubbi, investiti però di vari compiti rituali simili a quelli dei sacerdoti. Nella nostra religione, la materia morta è considerata impura. Tra i miei vari compiti c’è la segregazione dei cadaveri, una volta purificati secondo il rito, per impedire che vengano di nuovo contaminati dalle mani di famigliari troppo emotivi. Ancora più importante è la responsabilità di proteggere i vivi dalle contaminazioni che si suppone emanino i cadaveri.
Secondo le scritture, tutti i cadaveri irradiano un effluvio invisibile ma nocivo. Tramite abluzioni rituali, profilassi e preghiere, io devo proteggere la popolazione – e me stesso – dagli effetti perniciosi dei morti; insomma, per così dire, il nussesalar fa da scudo alla comunità contro tutto quel male e quella putrefazione, assorbendoli nel suo stesso essere. In cambio di tale nobile servigio, assicurano le scritture, la sua anima non rinascerà. Il nussesalar che adempie con scrupolo ai propri compiti sfuggirà per sempre al ciclo di rinascita, decadimento e morte. Quello che le scritture tralasciano di specificare, però, è che durante quest’ultima incarnazione il suo prossimo lo tratterà come spazzatura, come l’incarnazione stessa della merda: in altre parole, come un intoccabile fino al midollo.

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Non ricordo che ora fosse quando decisi di voltarmi e tornare nel mio appartamento; quel che è troppo è troppo; la gente continuava a camminare ma a questo punto avevo perso del tutto l’interesse per le loro faccende e desideravo solo l’intimità della mia casa, una tazza di caffè caldo e qualche spuntino; e così feci dietrofront; ma, me ne resi subito conto, questa era una delle tante decisioni poco sagge che mi capitava spesso di prendere perché, adesso, non si trattava più di andare nel verso della corrente, ma di contrastarla e per tenermi saldo su due piedi, evitando allo stesso tempo di morire travolto dalla marea di umanità che mi veniva addosso, dovevo raccogliere tutte le mie risorse fi siche e mentali; una delle strategie che sviluppai – per continuare con la metafora – fu di guadare tra la gente come si guada nell’acqua, muovendo le braccia come un nuotatore e, all’occasione, procurando piccoli danni come un cazzotto al naso o un pugno allo stomaco a un paio di persone; la cosa, ancora una volta, non era intenzionale per cui nessuno aveva da ridire ed io continuai a lottare con la corrente; mi venne in mente la solita scena quotidiana alla stazione quando tutta la città si muove verso il centro, scende dal treno e sgorga in un fl usso senza fi ne, rendendo impossibile ai pochi che, come me, vorrebbero dirigersi a nord, nei quartieri alti, raggiungere il binario e salire in treno; e devo ammettere che questo esercizio mi ha fatto spesso sentire orgoglioso a causa del suo implicito simbolismo: fare ciò che la massa non fa, essere così anticonformista da trovare un lavoro nei quartieri alti mentre tutti i lavori sono in centro; ma per tornare al racconto, mi sentivo, da un altro punto di vista, un perdente: mi trovavo adesso faccia a faccia con la folla, dovevo sopportarne gli sguardi indiscreti, curiosi di sapere chi fosse il tale che viaggiava da est a ovest mentre tutti si muovevano nella direzione opposta; vedevo i loro sguardi obliqui, i loro denti appuntiti, e nasi colanti molto più distintamente di prima, e visto che il fl usso di gente era costante, talvolta accadeva che mi trovassi vicino a quella creatura deforme con monconi per braccia, piedi bitorzoluti e, manco a dirlo, con una pelle adornata di pustole, porri e nei; e questo in un certo senso mi dava l’impressione che un enorme mostro con molte teste, occhi, nasi mani e piedi, mi stesse attaccando con ferocia, astio, sicuro di prendermi e divorarmi; nella mia mente si sviluppò così lo stesso malanimo che sarebbe naturale covare verso una creatura del genere e fu una sorpresa anche per me, oltre che una prova della mia maturità, il fatto che non aprii bocca per ringhiare, abbaiare, mordere nel folle tentativo di difendermi; inoltre, dato che la folla man mano per la pendenza premeva sempre più forte, scoprii con sconcerto che, grazie alla mia posizione, ero proprio io l’unica causa del parapiglia in cui, fi la su fi la, caddero, inciamparono, e trovarono la morte in uno dei modi meno dignitosi che si possa immaginare – per intenderci, come fossero lasciati in balia degli elefanti; la faccenda, dunque, si stava facendo pericolosa, ma continuai a camminare perché adesso non vedevo l’ora di avere il comfort del mio appartamento e di una bevanda calda.

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Il 21 giugno a Milano: Gay made in India. Incontro con lo scrittore R. Raj Rao, in collaborazione con il Milano Pride

 

R. Raj Rao a Milano per parlare di omosessualità in India

R. Raj Rao, autore per Metropoli d’Asia di Il mio ragazzo e Autobiografia di un indiano ignoto, sarà a Milano martedì prossimo 21 giugno per parlare di omosessualità, in un incontro dal titolo Gay made in India. R. Raj Rao è professore di inglese all’Università di Pune, e attivista per i diritti degli omosessuali in un paese come l’India in cui è ancora un reato.

Con lui interverranno Francesco Belais, Andrea Berrini e Francesco Comotti. Ci saranno letture di Riky Buffonini.

L’evento è inserito nella programmazione del Milano Pride 2016. Qui l’evento su Facebook.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e, dopo averlo arrotolato in una bella striscia rettangolare, lo portò agli occhi del ragazzo.
«Che fai?», sbottò lui.
«Ti bendo», rispose tranquillo Yudi. «È giusto una precauzione. Lo faccio sempre con i miei partner. Perché non sappiano in che palazzo abito. E se poi tornano il giorno dopo per ricattarmi?».
Yudi si pentì di aver usato la parola «ricattare» nel preciso istante in cui l’aveva pronunciata. Era come mettere strane idee in testa alla gente.
«Ti sembro un ricattatore, io?», chiese il ragazzo, offeso.
Era buffo vederlo camminare bendato, la mano destra nella sinistra del compagno.
«Non ho detto che tu sei un ricattatore», spiegò Yudi. «Mi piace essere super prudente, tutto qui. In inglese si dice “prevenire è meglio che curare”».
Erano arrivati nella via in cui viveva sua madre, nel secondo palazzo a sinistra. Un anziano sindhi che portava soltanto camicie bianche e pantaloni neri e che abitava due piani sopra la madre, stava salendo in macchina. Conosceva Yudi sin da bambino, quando viveva con i genitori, e aveva sempre pensato che gli mancasse qualche rotella. Ciononostante, vederlo accompagnare nel palazzo un tizio bendato era una stramberia che andava al di là di ogni possibile spiegazione. Squadrò Yudi. Che significa?, chiedeva la sua espressione corrucciata.
«Il mio domestico», spiegò Yudi. L’ho portato all’ospedale di Bombay per un’operazione alla cataratta. Capita».
«Quando torna tua mamma?», sospirò il signore, mettendo in moto la Fiat.
«Fra un paio di giorni», disse Yudi, e si allontanò in fretta.
Entrò con il ragazzo nella Pherwani Mansion (così si chiamava lo stabile). Schiacciò il pulsante dell’ascensore, che per fortuna arrivò vuoto senza altri vicini indiscreti. Vi spinse dentro il ragazzo, chiuse la porta a soffietto in gran fretta e salì al terzo piano.
«Hai detto che sono il tuo domestico?», chiese il ragazzo nel breve intervallo in cui l’ascensore andava dal primo al terzo piano.
«Solo per chiudere il becco a quel grassone di un sindhi», rispose Yudi.
«Lo sa di te?»
«Non ne ho idea. Non è che la gente vada in giro a dire: “Ah, so tutto di te, dei bei maschioni che ti scopi nell’appartamento di tua madre mentre lei non c’è”».
Il ragazzo rimase in silenzio. Non gli andava che lo chiamassero «bel maschione». Non gli piaceva nemmeno che Yudi usasse la parola «scopare». Yudi aprì la porta dell’appartamento e lo accompagnò nel salottino. Gli sbendò gli occhi e gli portò un bicchiere d’acqua.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

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Il 21 giugno a Milano: Gay made in India. Incontro con lo scrittore R. Raj Rao, in collaborazione con il Milano Pride

 

 

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Un giorno, dopo aver chiuso a chiave, come al solito, la porta del mio appartamento a Bombay, a Soul City, ed esser uscito sulla strada su cui affaccia il mio palazzo – strada che per l’appunto è un’arteria traffi cata – notai un gran quantità di gente andare a piedi da ovest a est, tutti nella stessa direzione, e dato che non avevo un granché da fare, e senza molte alternative del resto, visto che la folla, piuttosto numerosa, affl uiva con tale irruenza da impedirmi di andare altrove, mi unii a quello sciame e cominciai ad avviarmi senza avere idea di dove stesse andando e del perché; mentre camminavo, mi passarono per la testa un’infi nità di pensieri, e analizzandone la natura, scoprii che la maggior parte riguardava il desiderio di scoprire dove fosse diretta quella massa, congettura oziosa che mi occupava la mente, ma alla quale cionondimeno mi abbandonai, dal momento che tutto ciò ormai stuzzicava la mia curiosità: si stavano dirigendo a un comizio in un parco pubblico per ascoltare un pezzo grosso della politica? O si trattava piuttosto delle riprese di un fi lm in cui il protagonista era impegnato in una sequenza in cui cantava con la protagonista – o magari con un altro attore? O ancora, era possibile che fosse scoppiato da qualche parte un incendio gigantesco e che la gente volesse vedere con i propri occhi i danni causati dal fuoco? Intervenne poi un’altra parte del mio cervello a mettere in ridicolo quelle stupide ipotesi su comizi, set cinematografi ci e incendi, e accantonandole tutte, avanzò la sua teoria: se la gente camminava, era semplicemente perché non c’erano taxi né autobus a portarla in giro. E realizzando all’improvviso che effettivamente di autobus e taxi per strada ce n’erano pochissimi, concluse che era un bandh, un giorno di protesta contro questa o quella minaccia per la vita in città, come una rivolta o un’esplosione, evenienze piuttosto comuni al giorno d’oggi; malgrado il caldo, continuai a camminare, spintonato dalla folla che aumentava di minuto in minuto, e mentre mi muovevo le mie braccia oscillavano e sfi oravano i corpi di estranei, perlopiù di uomini, ma anche di donne, quelle poche al seguito del marito/fratello/padre/fi glio, e a volte mi trovavo a urtare parti sconvenienti come fi anchi, cosce e chiappe; siccome però la cosa non era intenzionale e dipendeva dall’enorme quantità di gente, nessuno aveva da ridire e continuava a camminare tranquillo; per spezzare il tedio di questa camminata senza meta, cominciai a spassarmela studiando i tratti fi sici della folla, piccoli dettagli come la curvatura della spina dorsale, lo spessore dei palmi delle mani, il grasso debordante dei fi anchi, o la sporcizia incastrata sotto le unghie, e il risultato di questo esercizio fu davvero illuminante, mi portò alla scoperta della sostanziale bruttezza del corpo umano, che in quel momento mi apparve assolutamente privo di grazia con quel modo che aveva di trotterellare qua e là sui piedi, senza preoccuparsi di apparire goffo a chiunque si desse la pena di guardarlo attentamente per fare paragoni; pensai che, messe a confronto, certe specie di animali come il cervo o il cavallo, note per l’agilità delle zampe, risultassero più evolute; mentre proseguivo con il passatempo di scrutare i corpi, così vicini ormai che si aveva l’impressione di essere avvolti dagli altri, e mi giravo di tanto in tanto per dare un’occhiata anche a quelli dietro di me, vidi teste con incipienti calvizie, piedi screpolati, narici pelose zeppe di moccio, e tanto altro ancora; presto, però, il mio senso dell’olfatto prevalse sulla vista e dopo una sorta di lotta interiore il primo ebbe, naturalmente, la meglio; come infatti fa notare un articolo recentemente pubblicato dal «Times of India», l’odore penetra nella parte emotiva del nostro essere molto più effi cacemente di quanto non facciano il suono o la vista: e infatti l’articolo parlava dell’olfatto come del più antico e misterioso dei sensi e proseguiva ricordandoci che era stato l’odore della madeleine inzuppata nel tè tiepido a far scrivere a Proust La ricerca del tempo perduto in sette volumi!

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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