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Metropoli d’Asia al Piccolo Teatro di Milano

Si chiama Tramedautore  il festival teatrale che ogni anno a Milano prensenta aree geografiche e paesi diversi del mondo. Quest’anno il focus è sul subcontinente indiano (dunqua India, Pakistan, Bangkadesh, Sri Lanka). Ci saremo anche noi: in un contenitore chiamato Metropoli d’Asia organizziamo incontri con autori (su tutti Hanif Kureishi il 16) e chiacchierate interessanti.

Oggi, la conferenza stampa che illustra la manifestazione.

CONFERENZA STAMPA

INVITO

Lunedì 9 settembre 2013 – ore 17:30

CHIOSTRO NINA VINCHI DEL PICCOLO TEATRO GRASSI – Via Rovello, 2 Milano

per la presentazione di

 

Intervengono:

Angela Lucrezia Calicchio e Tatiana Olear Direzione artistica del Festival

Sergio Escobar Direttore del Piccolo Teatro di Milano

Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano

Andrea Berrini Editore Metropoli d’Asia

Donato Nubile Presidente di C.Re.S.Co (Coordinamento delle realtà della scena contemporanea) e coordinatore dei focus sul teatro

Gli artisti di Tramedautore

A seguire aperitivo offerto dall’Azienda Agricola Vini Biondi di Trecastagni (CT) che produce un vino di nome Outis. Un piccolo sodalizio tra la cultura del vino e quella del teatro.

Pensierini asiatici: sull’identità delle classi medie

Il nostro Chan Ho Kei (occhèi, occhèi…), con la sua passione per le amnesie dei suoi personaggi, fa venir voglia di ragionare un po’ sulla questione dell’identità. Più di quanto sia successo a noi in una storia recente la generazione dei trenta quarantenni si confronta con scenari nuovi, e sperimenta sicuramente una rottura con il passato (forse con le visioni del mondo dei propri genitori).

Zheng Yu Ran è una giovane cinese, che si è precipitata a incontrarmi in un ristorante del 697 (il quartiere degli artisti di Pechino) al volante di una Mini fucsia, di quelle con le orme da cagnolone disegnate sul cofano e un grosso orsacchiotto di peluche sul sedile posteriore. Zheng Yu Ran scrive fantasy: eroi con gli spadoni capaci di spostarsi nel tempo e nello spazio. Uno dei suoi punti fermi sono le porte che si aprono su realtà parallele: oltre i confini della realtà, dunque.

Intimidita dalla presenza di uno straniero (parlava come se stesse stringendo a sé l’orsacchiotto) mi diceva con grande naïveté che loro, i giovani della Cina contemporanea, hanno alle spalle una letteratura profondamente legata al reale: sia esso immaginario come ai tempi del realismo socialista, sia esso veritiero come nel caso delle ultime due generazioni di scrittori: che sentono l’urgenza di rimasticare la Rivoluzione Culturale e i suoi orrori e traumi, così come la fine anni Ottanta e la repressione culminata con Tienanmen.

(continua…)

Un Incontro con Tew Bunnag

Di Massimo Morello, traduttore de Il Viaggio del Naga

Tropical Malady: sindrome che si manifesta con indistinto malessere, spaesamento, senso d’abbandono, languore, crisi della personalità e mistica. Il nome deriva dal film che ha reso noto il regista thai Apichatpong Weerasethakul. La Tropical Malady è come la malaria: resta latente per qualche tempo, poi riappare all’improvviso, col calore o l’umidità.

Tew Bunnag, autore de Il viaggio del Naga, è un portatore sano di Tropical Malady. Quando lo incontri, lo leggi, innesca una crisi. Accade perché Bunnag, quale incarnazione di un vissuto, di un karma, focalizza i pensieri sul biota Thailandia in cui la Tropical Malady si manifesta in forma benigna o maligna. È il paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, del sabai, il benessere, dove il mantra più comune è “mai pen rai” (traducibile col titolo della canzone “Don’t Worry, Be Happy”, a sua volta citazione del guru indiano Meher Baba). Ma è anche un Regno di conflitti più o meno latenti, disuguaglianze sociali, traffici oscuri, perversioni. Un paese in cui spiritualità, magia, filosofia, superstizione, miti e riti sono inestricabili (come nei film di Apichatpong). Non a caso Bunnag cita spesso Joseph Campbell, studioso di mitologia comparata.

Bunnag non ha paura di confusioni e contaminazioni. «La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante» dice. «Serve per arrivare alla nozione di Dio». Le sue posizioni sembrano avvicinarsi più al buddhismo Mahayana che al Theravada diffuso in Thailandia, la corrente più legata alla tradizione. Proprio in questo si richiama al concetto di Campbell dell’Eroe come archetipo. «Nel Theravada hanno messo in secondo piano il Bodhisattva (chi raggiunge l’illuminazione ma sceglie di restare nel mondo per fare da guida), l’archetipo di come essere nel mondo. Il mio approccio è: Come possiamo vivere in questo mondo? ».

Bunnag ha provato diverse vite. Nasce in una delle più nobili e importanti famiglie thai, che vanta diplomatici, ministri, dignitari di corte. Parte della sua infanzia la trascorre a palazzo reale. Poi, come tutti i giovani dell’ammart, l’élite, va alla scoperta del mondo. Alterna Oxford ai viaggi in Oriente. «Nella Londra anni ’60, l’interesse della beat culture era volto a Oriente. E io mi dicevo che in fondo provenivo proprio da là. Casi della vita» ricorda. Passa dalla dolce vita della Kabul d’allora, al misticismo allucinato di Katmandu. Con qualche stop nei fumosi bistrot della contestazione parigina.
Trasferisce tutte queste esperienze in una Thailandia che era la tessera centrale nel domino della guerra in Indocina e sfugge al destino di molti studenti contestatori solo grazie alla protezione concessagli dal suo status familiare. Forse per questo – ma non ne parla – si rifugia nella meditazione, nella pratica delle arti marziali interne, di cui diviene Maestro. «Tutta la mia vita spirituale riprese vita. Il tai-chi mi aiutava a vivere, mi ha anche aiutato a guarire da un brutto momento psicofisico».

Poco a poco, in forma diversa, da contestatore si reincarna in difensore della tradizione. «Con l’età l’anarchia può trasformarsi in elitarismo» confessa. «Come buddhista m’interessa comprendere come i vecchi valori si siano adattati o meno a questi tempi di produzione aggressiva e consumismo» si presenta. «Come scrittore ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto – non sempre è uno scontro – tra tradizione e modernità. Specie nella surrealtà urbana».

Bunnag è un personaggio di tale surrealtà. Apparve così sin dal primo incontro, anni fa. Era alla Author’s Lounge dell’Oriental di Bangkok, uno dei mitici Grand Hotel d’Asia. Arrivava da uno degli slum della città dove lavorava (e continua a farlo ogni volta che torna in Thailandia) in un centro d’assistenza per malati d’Aids. E così spiegava le possibili contraddizioni esistenziali. «Dipende da come le vivi, da quale valore dai a quello che hai. Da come sei connesso col resto del mondo, dalla coscienza della sofferenza». Sembrava che Bunnag traesse forza da quelle stesse contraddizioni. «C’è un certo conforto nella decadenza. E’ come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza. A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

In tutti gli altri incontri, di persona o elettronici – nel frattempo ha sempre più protratto la sua permanenza in Europa, in Spagna – Bunnag ha continuato a trasmettere la sensazione di muoversi e far muovere lungo linee d’equilibrio che intrecciano le trame della Thailandia. Nei suoi racconti, a voce o scritti, apparivano e si spiegavano le storie e i personaggi che animavano la vita del Regno: gli hi-thai, i protagonisti dell’alta società, nobili, attori o neocapitalisti, i phrai, il popolo dei più poveri, la rivoluzione dei “rossi” e l’economia sostenibile teorizzata dagli ultraconservatori. «La sfida è trovare una nuova via di sviluppo. Il concetto peggiore del capitalismo è che ti fa sentire in diritto di pensare che tu puoi far star male gli altri».
Poi, lo scorso autunno, si è materializzato il Naga, l’incubo descritto qualche anno prima nel romanzo di Bunnag. Non sino alle sue estreme conseguenze, per fortuna, ma è apparso come una premonizione della premonizione, di quando Bunnag continuava a chiedersi: «Dove sono finiti i canali di Bangkok?».
Privata dei suoi klong, i canali che ne garantivano l’equilibrio idrico, Bangkok è stata in gran parte sommersa dall’acqua. Come circa 15.000 chilometri di Thailandia. Quasi mille le vittime.

Il Naga, come aveva scritto Bunnag, ha messo in evidenza le fragilità di un sistema. Quello thai, ma anche quello asiatico, troppo frettolosamente indicato quale protagonista di un nuovo secolo che dovrebbe segnare il tramonto dell’Occidente.

Infine, ma solo perché ci vuole tempo per metabolizzarla con molta sgradevolezza, il Naga ha fatto percepire tutte le fragilità di chi a Bangkok ha scelto di vivere. Ha provocato una profonda crisi di Tropical Malady. «Vivo in una dimensione sempre più strana» mi aveva detto Bunnag poco tempo prima «Non so esattamente che fare». Ormai da troppo tempo non credo alle coincidenze.

Massimo Morello tiene un bel blog da Bangkok: www.bassifondi.com

Una rivista, un intellettuale, una rivolta: da rivedere a Londra, domani

Ou Ning mi spaventa una sera a cena, dichiarandomi l’intenzione di cercare un incontro con Toni Negri quando visiterà Parigi, in aprile. Di tanti, proprio lui? Provo a spiegargli i danni (eufemismo) fatti nella seconda metà dei Settanta da questo ineffabile professore, che lasciò dietro di sé una scia di delitti e qualche migliaio di ragazzotti in galera, e si accomodò poi nella bellissima Parigi.

Gli dico anche: ecco, se devo fare un paragone, per la sua arroganza e violenza, per il disprezzo dell’avversario e per il fanatismo, Negri mi fa pensare alla vostra Rivoluzione Culturale: che fu ribellione contro la burocrazia, ma presa dal lato sbagliato (eufemismo).

Ou Ning (che come tanti nel mondo lesse Impero, bigino e instant book no global del professore, che mettendo in fila buoni pensieri elaborati da altri migliori di lui si vide così moltiplicata d’acchito la quota di mercato), mi capisce: certo, dice, prima di scrivere del presente, avrebbe dovuto “chiedere scusa per il passato” (locuzione che immagino sia una traduzione abborracciata nel suo inglese scarso del “fare autocritica” in cinese).

Perché la ribellione che cerca Ou Ning è sicuramente differente. La sua Chutzpah (qui c’è anche una sua buona biografia) è una rivista di letteratura pura, nonostante il nome (parola che in yiddish significa “insolente”, o “faccia tosta”, e che lui riproduce senza però una particolare vocazione alla storia dell’ebraismo: lo fa così, gli piace il termine).

Intende portare all’attenzione del pubblico (in parte internazionale perché al suo interno l’inserto Peregrine traduce ogni volta tre o quattro racconti in inglese, dei trenta che Chutzpah presenta in cinese) la generazione di quarantenni, a suo dire schiacciati tra i più vecchi nomi noti dell’editoria internazionale (ad esempio Mo Yan, e poi a cascata Yu Hua, Yan Lianke, Su Tong, Bi Feyu) e la generazione del giovanissimi, mezza sesso e rock and roll, mezza blog (tra parentesi, Ou Ning mi parla malissimo di Han Han, che secondo lui è una versione edulcorata del potere, un ribelle di facciata, e quando invece gli chiedono chi sia il migliore scrittore cinese contemporaneo dice senza esitazione: Zhu Wen! Come a dire: Metropoli d’Asia ha il meglio e il peggio).

La generazione che interessa a Ou Ning è quella nata nei primi settanta: la sua, che da giovanissima ha visto le timide aperture della censura nella seconda metà degli Ottanta, e si è poi schiantata contro la repressione di Piazza Tian an Men.

E questa generazione oggi osserva e rendiconta con favore ciò che si muove nel paese di mezzo, su tutte la ribellione di Wukan: una cittadina intera che scende in piazza contro la corruzione dei dirigenti di partito locali.

Ou Ning quindi, che è stato a Milano ospite del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, cerca incontri con i ribelli d’Europa (da un punto di vista intellettuale, certo): a Roma andrà al Teatro Valle Occupato, a Parigi s’è detto, a Milano Stefano Boeri gli promette un incontro coi Wu Ming che però non si realizza. Dopo il rush milanese, purtroppo, parte in fretta per Londra (e chi incontrerà laggiù?).

Io passo quindi qualcuna delle mie giornate a ruminare, in ritardo: ma chi avrei potuto presentargli, io? Cosa avrei potuto dirgli? Come indirizzarlo su intellettuali, scrittori, artisti consci del fatto che le ribellioni e le rivoluzioni comportano sempre un pericolo: non solo l’eterogenesi dei fini, ma banalmente la costruzione di leaderships orrende (i miei conoscenti fine anni Settanta in Italia si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che hanno sfiorato la criminalità politica e si sono adagiati su un proprio fallimento, e quelli che direttamente si impiegarono a Mediaset; schematizzzo, è ovvio: ma come si fa a fomentare una ribellione che in sé contenga i germi del meglio e non del peggio? This is the question). Discorso che vale per tutti i no Tav nostrani, e grillini, o chissà che.

Eppure lui, loro, gli elementi per starci attenti ce li hanno: appunto, la Rivoluzione Culturale, quando Mao diceva “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, e il risultato furono orrori e vite spezzate, in cambio di nuovi equilibri negli apparati dirigenti (tipo: un Berlusconi al posto di un Andreotti, un Bossi al posto di un Almirante o di un Toni Negri, magari un Di Pietro al posto di un D’Alema, e chissà cosa ci riserva l’oggi). Ou Ning, vorrei dirgli: perchè il rappresentante dei ribelli in Cina è stato Bo Xilai (oggi silurato), che dichiarava di rifarsi all’ortodossia maoista?

E di nuovo: chi gli faccio leggere? Chi gli faccio incontrare? Un manciata di nomi: Colin Ward, ma crederete mica che basti. E a Roma avrebbe potuto incontrare Pascale, Piccolo, quelli de Lo Straniero, forse. E sopratutto: io chi incontro? Chi si ribella sapendo nessuna Causa giustifica nessuna Schifezza, che le rivoluzioni non riguardano i fini, ma i mezzi? Ou Ning, questo potrebbe essere il vostro ruolo: prevedere e precedere la degenerazione dei movimenti, mettere in guardia fin d’ora.

Ma ora: pausa. Questo post poteva avere un altro incipit. Avrei scritto:

Ou Ning, a Pechino, una sera a cena mi racconta dei suoi anni ottanta. “Eravamo giovanissimi, e allora chi poteva viaggiare in Cina era fortunato. Se arrivava a Pechino qualcuno da Nanjing, passavamo le nottate a parlare di filosofia, di letteratura. Bevevamo. Alla fine ci conoscevamo tutti, poche centinaia di ragazzi usciti dalle università, ci sembrava che il futuro fosse a un passo. Il primo Deng Tsiao Ping aveva aperto il nostro paese: improvvisamente si discuteva senza paura.” Mi dice: si fumava tantissimo.

Quando provo a domandargli di Piazza Tian an Men, come al solito svicola. Fa finta di non sentire la domanda: l’ho capito, puoi essere ovunque, Pechino, Milano, o Singapore, puoi essere davanti a un pubblico con un microfono in mano o davanti a una salsiccia, io, lui, e la sua fidanzata, ma è sempre la stessa cosa: di quello non si parla. Criticare la Rivoluzione Culturale è possibile, e il potere, la corruzione, i singoli leader di partito, o la manutenzione ferroviaria e la distruzione dei generi alimentari. Ma silenzio sulle three T (Tian an Men, Tibet, Taiwan) one F (Falun Gong). E quando gli chiedo di Wukan, della rivolta di una cittadina intera, lui svicola: e, appunto, si finisce su Bo Xilai.

Insomma, ribelli con il limite: ribelli davvero.

Bello: questo sì un ponte tra l’Occidente e l’Oriente, loro e noi alle prese con una rivolta, e con la necessità di farle partire con il piede giusto, ciascuno con un passato che di riferimenti è pieno.

PS: Berardinelli sul domenicale del Sole24 la settimana scorsa, dentro a un articolo fortemente condivisibile, scriveva: in occidente oggi avremmo bisogno di un Lenin, o forse di un Ghandi. Hmm…: ma non dovremmo cercarci di meglio, noi e i cinesi?

PPS: con Ou Ning ci siamo dati appuntamento il più presto possibile, a Pechino. Sperando di trovarlo libero e non blindato…

E domani a Londra!

Foto: Alessandra Vinci

 

 

Errare

L’editore errante incontra. E’ questo il bello del mestiere.

Oggi, in tour nel Sud Est asiatico, mi trovavo in una stanza spoglia, seduti in quattro attorno ai tavolini di ferro nel retro di una libreria indipendente di Kuala Lumpur: Silverfish Books, di Raman Krishnan, che oramai conosco da anni: ogni volta lo passo a trovare e lui ascolta paziente la mia storia, ma non abbiamo mai trovato il modo di collaborare. Raman ha costruito attorno alla sua libreria una piccola casa editrice che riesce a pubblicare ottima narrativa e saggistica in lingua inglese: mi dice che è il suo ‘progetto politico’ che è affermazione abbastanza inusuale da queste parti, anche se è forse solo una traduzione ambigua: politics, cosa davvero si intende? Ma è chiaro che per lui, di origine indiana, è il modo per coltivare una battaglia culturale contro l’imperare di un islam invadente anche se non oppressivo: e la lingua inglese lo situa in un ambito di autonomia intellettuale.

Oggi Raman faceva da chaperon a un incontro con due editor locali che mi presentavano il loro progetto: Linda Lingard e Dayaneetha Da Silva intendono lanciare una casa editrice che traduca dalle lingue locali del sud est asiatico: in inglese, ovviamente. Bel progetto, vuol dire dare aria a una narrativa che altrimenti resta confinata nel Sud Est. Ma quanto costa farlo? A chi la vendi? Linda e Dayan apparivano impreparate.

E quindi ecco apparecchiata una conversazione a largo raggio che spazia dalla narrativa bengali all’e-book, e queste persone mi erano estremamente simpatiche, Linda clumsy, cinese che va all’ingrasso, facilmente imbarazzabile, Raman come sempre un po’ in difesa dietro a frasi altisonanti (modello, struttura di costi) e a qualche affermazione messa giù solo per dimostrare una conoscenza enciclopedica dell’editoria asiatica, ma intelligente e appassionato, capace di scovare talenti che ora tenterà di imporre al mercato europeo, e vedremo.

E Dayan (più tardi mi ha accompagnato a prendere un taxi e mi ha detto: io sono stata invitata da Linda a questa riunione, sapevo grosso modo chi sei tu, ma non ho capito per niente il ruolo di Raman: io le ho risposto: se conosco bene Linda, ha sempre bisogno di farsi accompagnare da qualcuno che la rassicuri). Dayan, direi, è editor di origine indiana, qualche capello bianco come un aureola attorno al viso, anche lei bella larga di fianchi ma giovanile nello sguardo, vispa, acuta.

Ma che stavo a dire? Ah sì l’editore. In realtà quel che mi premeva qui ricordare è il primo incontro in assoluto, nel corso del mio errare (che humanum est, sì, ma l’etimo che mette insieme lo spostamento nello spazio e l’errore va indagato). Dalla lista di un gruppo di amici di Bombay, un nome e un numero di telefono: Meher Pestonji. A casa sua, la bella e cupa casa di Colaba, dentro a una stanzetta dove c’è il suo computer, e soprattutto il suo brandy. Lei versava, versava, parlava di ‘social work’ (io di microcredito) e di un paio di romanzi suoi (io dei ‘narrative non fiction’ miei). Di bicchiere in bicchiere io pensavo: bel mestiere, l’editore errante!

Al di là dei giochi e delle sbronze, nel corso del tempo che mi ha portato in quattro anni da una scrittrice a un gruppo di publishers, da Bombay a Kuala Lumpur, a me è restato in mano una sorta di album delle figurine. Quelli che incontro non solo sono artisti e operatori culturali di civiltà lontane nello spazio (anche se sempre più contigue a noi nelle forme). Sono purissimi esponenti di una middle class asiatica che sta oggi imponendosi al mondo: perché consuma, perché fa attività economica che cresce, perché distilla comportamenti e visioni del proprio mondo che a me piace confrontare con il mio. Un Altro, insomma. Ma un Altro non dissimile da me, di cui mi affascina questo ripartir da zero: cosa sono le metropoli asiatiche se non un mondo nostro, di ceto medio (piccola borghesia, si diceva una volta), consueto, eppure desueto perché loro alle spalle hanno poco, si vedono questo futuro nuovo di zecca davanti agli occhi e possono ancora ragionare su come strutturarlo, decidere cosa farci, lì dentro. Gli piace? Non gli piace? Cosa gli pare giusto e cosa sbagliato?

Due pensierini finali.

1. Mi pare si chiamasse Claudio Lolli il cantautore italiano che scrisse questi interessanti versetti: Vecchia piccola borghesia / per piccina che tu sia / non so dire se fai più rabbia / pena, schifo, o malinconia. Ecco: la piccola borghesia asiatica no, non fa né schifo né malinconia: anzi!

2. Dal Dizionario Italiano Ragionato G.D’Anna – Sintesi, Firenze 1988 (molto pre-twitter): errare v. intr. Nell’accez. orig. Andare senza una meta precisa. Vagare (…). Viaggiare senza una meta. / Dall’idea del vagare deriva il signif. di Sbagliare, Incorrere in errore. Allontanarsi dal vero (essendo l’idea dell’errore connessa a quella dello smarrimento della giusta strada).

Perseverare diabolicum.

Calcutta e Kolkata

Mandira Sen è un’editrice di Calcutta. La sua Stree Samya dichiara di occuparsi di ‘Gender and Social Issues’: le donne innanzitutto, ma anche gli intoccabili, la società indiana e quella del West Bengal, lo stato che ha Kolkata per capitale e che per decenni è stato considerato cuore culturale dell’India e della sua intelllighenzia di sinistra, perché governato da un partito comunista che nazionalizzava e restava legato a doppio filo ai sindacati operai, favorendo ogni forma di espressione artistica: prima di Bollywood il grande cinema indiano è nato qui (Satyajit Rai), e la letteratura in lingua bengalese (che data le sue origini nel 14° secolo) ha vissuto un periodo di rifioritura nei decenni successivi all’indipendenza indiana, sule orme di Rabindranath Tagore. Ci sarebbe da parlarne per pagine e pagine, ora basti dire che i tempi son cambiati, e di parecchio.
Io come sempre preferisco scrivere di lei, di Mandira Sen, di chi le sta intorno, e del nostro incontro. Che mi ha portato in una bella casa della media borghesia di Calcutta, o Kolkata in hindi, o Kolikata in bengali, non ricca ma raffinata, piena di legno e libri, e come sempre di ottima cucina indiana.
Sono a spasso con un gruppo di editori italiani intruppati dall’AIE (di questo sì, dovrò raccontare), spaventati dal disordine, dalla povertà, dal traffico e dalle latrine. Ho cercato di spiegarglielo. Delle grandi città Calcutta è quella che più conserva il segno delle metropoli indiane. Usciamo da un hotel mitologico (il The Grand) che sembra costruito come un fortino, quadrato attorno alle sue palme e alla sua piscina, cesellato di vetri smerigliati e parquet, di lampadari a goccia e marmi (indani? O li portavano da Carrara, da Milos?). Due soldati lo presidiano dentro a una garitta protetta da una lastra di metallo pesante, e puntano i fucili mitragliatori verso l’esterno. Si esce dal cancello ed ecco il giardino delle delizie terrene di Hyeronimus Bosh (e di Indrajit Hazra), i corpi sembrano accatastati l’uno sull’altro, i negozianti siedono a gambe incrociate appollaiati dentro a scatole sopraelevate, i mendicanti implorano, i negozi delle griffe cercano di farsi luce nella confusione. Ma quando le giri a piedi, queste strade, non ti senti minacciato, non temi per le tue saccocce, non hai una sensazione di assalto imminente, semmai un pochino di asfissia. Sono bravi gli editori italiani: sfidano uno schock, e ne escono soddisfatti.
Ma se anche volessi, io pur più avvezzo all’India, chiudermi dentro a un pullmino con aria condizionata, Mandira non me lo consente: nella sua grafia che tanto ricorda quelle dei nostri padri, o nonne, mi da indicazioni su come uscire da una fermata di metrò che prima va, ovviamente raggiunta.
E il metrò è una piacevole sorpresa: niente a che vedere con la modernità esibita di quello di Delhi, men che meno con l’affollamento dei treni urbani di Bombay. Solo, un po’ di coda per il biglietto, davanti a una cassa che sembra uscita dai nostri anni cinquanta: con i foglietti appiccicati con lo scotch per dirti dove devi andare. Vado alla fermata di Kalighat, appunto non lontano dalle gradinate dove si scendeva al fiume un tempo, dedicate a Kali così come il tempietto sotterraneo, incastonato nelle piastrelle a muro della stazione del metrò, baricentro delle indicazioni scritte da Mandira: sali la scala a sinistra dell’altare (però dice shrine: quindi reliquario?) esci e vedrai la mia via.
Il personaggio, in casa, è il marito. Governando i due figli adottati da piccoli, e un cane che vorrebbe sedersi sempre sopra alle mie scarpe, mi racconta del West Bengal. Amit è di una cultura stratosferica, potrei ascoltarlo per ore, anche se non di cultura si occupa: ma di cosa si occupa esattamente? Si descrisse come economista un anno fa, quando ci portò in giro per i vecchi club di Kolkata (Cricket Club, Gymkhana Club, Radio Club, gli stessi nomi che a Bombay, gli stessi arredi coloniali, come a casa loro legni scuri e vetri smerigliati, whisky pregiati, camerieri in livrea). Quando Draghi ha preso il comando della BCE Mandira mi ha scritto: me lo ricordo, era un compagno di studi di Amit, e io ero diventata amica intima di sua moglie: tu per caso non sai come potremmo contattarlo, ora? Figurati. Ma Amit ora mi dice: economista? Beh mi sono interessato di commerci… Il tutto dentro a un salotto di sicuro non leccato, molto poco ‘pettinato’: e il cane puzza, devo dire. Ma qui si beve birra a fiumi, per cominciare.
Protagonisti della serata saranno il mio amico Carlo Laurenti, traduttore di Cioran, collaboratore di lungo corso con l’Adelphi di Calasso, uno stile a metà strada tra l’hippy in ritardo e l’intellettuale British anni ’40, magari omosessuale (ma lui non lo è), magari un po’ fuori, magari ubriaco della sua stessa passione per le connesioni e le reciproche influenze tra Oriente e Occidente, di cui discorre con Sankar, un’amico della famiglia Sen, saggista bengali e traduttore, sempre in bengali, di filosofia classica europea. Mi perdo, scusatemi, non riesco a seguirvi e comunque non dopo questa birra, questo vino, e l’whisky che tengo tra le mani.
E insomma, Mandira? Mandira è la stessa del video che qui in coma ho linkato: qualche improvvisa scivolata verso un sorrisetto insofferente, frequenti riassestamenti su un sorriso solare, dolcissimo, una attempata e giovanissima vecchia signora che doveva essere bellissima anche solo pochi anni fa e che chiunque sposerebbe di corsa ora. Pensieri pieni di whisky, certo.
Bel catalogo, quello di Mandira. Intraducibile in Italia, ma dategli una scorsa: questa è la borghesia intellettuale di Calcutta, che come la nostra non sa più bene dove andare. Uguale uguale, gente. Sono le connessioni: tra l’Oriente e l’Occidente.

Local Economy

Li ho incontrati insieme alla Fiera del Libro di Calcutta, davanti al padiglione degli incontri con gli autori naturalmente, e le somiglianze tra i due mi sono saltate all’occhio. Giovani, ruspanti (termine inusuale? A me piace, mi pare designi persone o situazioni o testi o sonorità o immagini che non perdono il contatto con la nuda terra, con la grana dura dell’asfalto. Il suo opposto potrebbe essere: raffinato, letterario, snob, salottiero, evanescente, effimero). Al punto da mettere a dura prova il mio inglese, da loro storpiato gergalmente, e come sempre inframmezzato da termini hindi, masticato dentro alle loro bocche. Di Sarnath Banerjee recentemente ho detto: Sarnath bofonchia. Come una pentola in perenne ebollizione, con un coperchio che le balla sopra e rimanda sbuffi e clangori. Indrajit Hazra no, lui pronuncia le sue frasi con voce stentorea, alza la voce quando occorre, ma il suo vocabolario è un tunnel scavato nella roccia viva, con le pareti graffiate da rostri meccanici, un po’ reminescenze di passate epoche aliene, un po’ modernità barocca.
Hazra ha una rubrica sull’Hindustan Times e lì si occupa di tutto, dal calcio a Bob Dylan, dai senza casta ai politici glamour. Politicamente scorretto quel che basta a regalarci zaffate di verità purissima su un India talmente vasta e complessa da non poter essere ridotta entro alcuno schema precostituito, entro il già detto.
Banerjee è artista visuale riconosciuto, esposto in Europa (anche al Maxxi di Roma), in cerca di una sistemazione semipermanente a Berlino, ben insediato a Londra (mentre Hazra, non so dire perché, in una nostra città ce lo vedo poco), ma indiano fin nel midollo, per nulla anglo-eccetera, a suo agio nella confusione e nella puzza della nativa Calcutta come nel bel mondo dei vernissage di Delhi.
Hazra lo incontri a volte sfranto da buon vino rosso (o cattivo vino rosso indiano). Banerjee ricorda più un nostro artista off da centro sociale, avvezzo ad altri usi e consumi.
Bibliografia: di Hazra il nostro Il Giardino delle Delizie Terrene, ma anche un Bioscope ambientato nella Calcutta dei tempi d’oro del cinema indiano (ruspante), svolto attorno al proiettore 36 o 72 pronto a andare a fuoco appena possibile – come nel Giardino: che finisce con uno dei due protagonisti che da fuoco alla Fiera del Libro di Calcutta (ehi Indrajit, sei qui a dar fuoco al padiglione? Si guarda intorno preoccupato: well, non nominare quel romanzo). Il piromane cominciava la sua carriera lasciando andare a fuoco la casa con la fidanzata dentro…
Di Sarnath Banerjee, graphic novelist, c’è un buon The Corridor (da me inseguito invano perché appariva venduto a un ignoto editore italiano di cui nulla poi si è saputo), storia di un graphic novelist e della sua Delhi (paradossalmente molto milanese, gli dissi una volta), e poi the Barne’s Owl, bellissimo nella scelta di inserire entro al disegno foto vive di Calcutta, che ci appare così in tutto il suo fatiscente splendore, ma poi costruito su una linea narrativa tutta dentro a un passato di battaglie e cavalieri, elmi e spadoni. L’ultimo Harappa Files è una collezione di pezzi brevi o vignette singole: se avete voglia di immergervi nei temi politico sociali trattati quotidianamente dal gossip mediatico indiano, accomodatevi: è perfetto.
In diretta differita, la seguente scena.
Sarnath (Dopo avermi salutato con l’abituale: Andrea, tu sei una spia di qualche servizio segreto, MI5, Mossad. Dove vado nel mondo, Londra, Ferrara, Kolkata, Delhi, arriva Andrea) (E quando dimostro di avere notizie dei suoi spostamenti recenti mi fa: tu mi sembri Lord Shiva, onnisciente e onnipresente): Indrajit tu conosci Andrea?
Andrea: certo, gli ho pubblicato il Giardino.
E Sarnath gli salta addosso: oh, sono entrati un po’ di soldi allora?
Indrajit: beh sai, l’economia italiana è in crisi, Andrea mi ha chiesto una prestazione gratuita.
Sarnath: ah, e l’economia globale va meglio?
Indrajit: recessione.
Sarnath: e l’economia locale? (E mentre Indrajit si gira a parlare con qualcun altro rilancia la domanda: and what about local economy? And what about local economy?).
Sono i nuovi intellettuali indiani. Trenta-quarantenni, circondati da riferimenti globali e occidentalizzati, ma immersi dentro a un humus indiano che è il loro cortile, background perchè backyard (giardino?), questa polvere che non te la stacchi di dosso nemmeno alle mostre dei vari British Institute perché impregnata di delizie terrene a cui non hanno alcuna intenzione di rinunciare. Non sono mica matti.

Meher Pestonji

Atterro a Bombay e scopro che il Nokia d’anteguerra dove archiviavo i numeri indiani mi ha lasciato. Ho le mie scatoline di biglietti da visita, certo, ma sento la mancanza dei numeri degli amici, le cui vecchie caselle di posta elettronica mi rimandano messaggi d’errore.

Ci penso mentre vado a zonzo per le vie di Colaba, sul lungomare, percorrendo l’Apollo Bunder dal Gateway of India (un brutto arco con decorazioni dallo stile incerto che fungeva da segnale di saluto per i navigli in arrivo dalle isole di Sua Maestà Britannica) al Radio Club, passando davanti all’ingresso del Taj Mahal Hotel (che è strano davvero: qualcuno ha detto che l’architetto ha fatto costruire questo magnificente albergo girandolo per il verso sbagliato: qui sembra di entrare dal retro, è vero che i cavalli in pietra segnalano l’ingresso, che però si compone di due porte piccole, basse; dentro, si apre un ambiente che va su fino alla grande cupola, con uno scalone che lo risale: sembra un ingresso tardi anni Ottanta, postmoderno!).

Dietro l’Apollo Bunder c’è un quartiere di strade ortogonali e edifici che nella fatiscenza tipica di Bombay conservano tracce di splendore: porticati, parti in legno, scalinate esterne, finestroni ampi e contornati di colonnine, la scelta stilistica è pure qui incerta, ma i giardini sono lussureggianti di piante tropicali, le vie interne riposano in un silenzio inatteso per questa caotica città. In una di queste vie abita Meher Pestonji, scrittrice di etnia Parsi che mi ha sempre offerto buoni bicchieri di liquore e utili e piacevoli chiacchiere.

Ma non riesco a ritrovarla, la casa. Non ricordo il nome della via, né la posizione esatta, né soprattutto riconosco un edificio. Oliver street? Forse. La casa era in un fiorente stato di abbandono, riconosco un possibile vialetto di ingresso ma a un edificio ristrutturato di recente e dipinto di un rosso granata (presente la maglia del Torino?) un po’ fuori luogo (benchè… ricorda l’Old Fort di Delhi, in fondo il colore è indiano). Chiedo all’immancabile guardiano: Pestonji? Sì, mi fa. Ma è appena uscita, c’è su la figlia.

Bene, allora ci sono. Ma: la figlia? Ricordo una giovane donna che si porta dietro un evidente stato di difficoltà. Ricordo la fatica di Meher nel descrivermela. Ricordo gli amici comuni dirmi: eh certo, poi lei ha Nishat. Nishat che si aggira per casa in pigiama, che ha deciso di posizionare la propria stanza da letto proprio all’ingresso di casa, per farsi ben guardare dagli ospiti mentre se ne resta rannicchiata sulla branda traballante che pretende di usare come letto. Nishat comunque discreta, gentile, che saluta distante come una persona in preda a una profonda depressione (o forse semplicemente sotto farmaci).

Salgo, lascerò un biglietto da visita con il mio numero.

Meher, dal canto suo, è una Parsi anomala: ha rotto la tradizione sposando un non Parsi, fatto che come è noto provoca alti lai tra i famigliari e rimostranze a non finire. Nel suo caso una rottura totale (anche se, va detto, è ormai pratica corrente tra le nuove generazione e i Parsi si stanno estinguendo: o almeno, così dicono loro, perché parsi si può definire solo il figlio di due Parsi! Strana attitudine, comune tra le minoranze, quasi un desiderio di suicidio etnico).

Meher ha reagito alla rottura diventando scrittrice. Il suo primo libro di racconti porta il titolo di Mixed Marriage, e ovviamente affronta l’argomento di petto. Dopo il divorzio con il marito (etnia: Cristiano), diventa giornalista e comincia a scandagliare le baraccopoli di Bombay. Ne risultano due romanzi, Sadak Chhaap e Parvez centrati rispettivamente su un bambino di strada e su una attivista.

(Di Meher ho già citato il suo testo per teatro: Feeding Crows, naturalmente organizzato attorno alla tradizione dai funerali Parsi. I corpi vengono lasciati sulla terrazza delle Torri del Silenzio, a Bombay, perché siano divorati dalle aquile pescatrici, o dagli avvoltoi. Problemino: le aquile pescatrici non ci son più, a Bombay, e cominciano a scarseggiare gli avvoltoi…. Un testo la cui evidente ironia aveva provocato crasse risate da parte di un uditorio, così mi disse Meher, in maggioranza Parsi).

Il solito inquietante ascensore sferraglia su fino al quarto piano. L’interno dell’edificio non è certo ristrutturato come la sua facciata, la scala è piena di calcinacci e, direi, materiali vari che danno l’idea di essere abbandonati lì da mesi. Come spesso in queste case la porta in legno è aperta, ma resta chiuso un cancelletto. A destra e a sinistra del corridoio le porte delle due stanze gemelle che Meher affitta: in alto sopra lo stipite la statuetta di Anuman, dio scimmia, da un lato, e il più comune Ganesh dall’altro.

Viene a aprirmi Nishat: che sommessamente mi riconosce, dopo quasi tre anni. Ma appare subito padrona di sé, con semplicità mi invita a sedermi in un salotto che ricordavo come squallido, illuminato da due tubi fluorescenti di gelido neon.

Nishat mi offre un tè. Mi propone i suoi biscotti appena usciti dal forno. Il salotto ora è pieno di oggetti d’arte, soprattutto statue in ferro a metà tra la tradizione e l’arte moderna, dovrò chiedere a Meher di cosa si tratta. E due belle lampade liberty fanno buona mostra di sè, e calore. (Il salotto peraltro è affacciato su due terrazze strepitose: un angolo di mare, i giardini di Colaba).

Certo, è sempre Nishat, il suo sguardo ha un che di opaco, come se ne restasse nascosta dietro a una distanza che le consente di non esibire emozioni, negative o positive che siano, e di non esserne sopraffatta. Come se non reagisse emotivamente.

Ma viene a sedersi con me, mi domanda di Metropoli d’Asia, e mi racconta del suo libro: sì ha pubblicato un libro. Sono ricette di cucina, l’editore è Poular Prakashan: editore locale, ma noto e ben distribuito. Il libro è stato presentato da Crossword, la libreria più importante della città, da una specie di star televisiva, che tiene una trasmissione di cucina molto seguita.

Dietro alla sua compostezza intuisco Nishat raggiante. Le ricette sono una personale reinterpretazione delle molte cucine presenti in India, contaminate tra loro: una sorta di nouvelle cuisine indiana, una fusion: in copertina una papaya farcita di ceci e altri legumi. Mi invita a cena, per una prossima serata.

Dalle nostre parti spesso riemerge una annosa questione (un “dibbattito”): chi scrive non vive, chi vive non scrive. Le Pestonji, madre e figlia, scrivono PER vivere. Meglio.

Kalpana Swaminathan

Kalpana è un’amica. E sono un amico anch’io: da South Bombay a Andheri capita di sorbirsi due ore nel traffico, per incontrarsi una volta ogni tanto a parlare un po’.

Andheri è una delle nuove zone residenziali di classe media a nord, oltre l’aeroporto, e non ha niente di bello da mostrare. C’è un vialone principale piuttosto scalcinato e costantemente in costruzione (serpentine, blocchi improvvisi, cumuli di terra che rendono l’aria opaca di polvere) che esibisce pochi tronfi centri commerciali.

In realtà ci vuole di più a percorrere l’ultimo pezzo di strada fino al ristorante che non a compiere l’intero tratto sud-nord, e i tavolini sulla strada al ristorante sono un controsenso di rumore (quassù circolano i motorisciò) e fumi di scarico. All’interno ci sorprende un incongruo arredamento anni Sessanta italiani, triangoli di plastica, specchi a gogò, e sedie scomode, sembra di essere al tabarin di Milano Calibro 9, con Gastone Moschin e Barbara Bouchet.

Se vien giù lei, meglio. Mi dà appuntamento a Magna Bookstore, una piccola libreria specializzata in narrativa indiana sulla MG (Mahatma Ghandi) Road che dal Regal Cinema attraversa Kala Ghoda e Fort, tra palazzoni grigi (quelli della fantascienza alla Bilal, ne ho già detto), porticati in pietra o in ferro come le stazioni di Parigi.

Seduti a Magna Bookstore si osserva dalla finestra la David Sassoon’s Library, sassi grigi, mattoni rossi, bifore dal disegno orientaleggiante: mughal dicono qui. Dentro si svolge ogni anno un piccolo festival letterario locale, la sala superiore è tutta in legno, ci sono delle sdraio da spiaggia su cui si accomodano a leggere il giornale vecchi signori in kurta bianca e panciotto ai quali vorrei sempre chiedere la loro storia.

Magna Bookstore al primo piano ha un bovindo in legno sulla strada, lungo e stretto, ci sono cinque tavolini a tre gambe, noi consumiamo un nostro rituale privato: beviamo ginger lemonade ghiacciata.

Di Kalapana Swaminathan qui avevo trovato The Gardener’s Song, il secondo giallo della serie Lalli, una poliziotta che vive in un condominio e in un quartiere dove i vicini le chiedono di risolvere il caso di omicidio che riempie le bocche di gossip popolari.

Divertente, frizzante, quasi una guida a Bombay: era il libro giusto per cominciare Metropoli d’Asia tre anni fa, ma l’ufficio diritti del mio ineffabile ex socio (Giunti Editore) se lo perse per strada (giuro: se lo son dimenticati!). Ritrovai in Italia Lalli a marchio Kowalski come Sapori Assassini a Bombay (in realtà è la traduzione del primo libro, Page 3 Murders) , perché Lalli è un’ottima cuoca. Il libro purtroppo fu letteralmente buttato sugli scaffali, sprecato, Kalpana lo sa, e noi festeggiamo con ginger lemonade il nostro lutto comune, il mancato connubio (il secondo libro della serie non lo si è quasi visto, del terzo hanno l’opzione e chissà).

Kalpana è chirurgo. Sì, avete capito bene. Chirurgo generico, ore e ore in sale operatorie che non riesco a immaginare, a Bombay: una volta mi ha fatto un rapido elenco dei materiali che scopriva mancanti mentre era lì in piedi su un corpo umano aperto, e allora altro che detective Lalli, per trovare una soluzione all’enigma.

Kalpana non è l’unico chirurgo scrittore che incontro in Asia, sembra un po’ una moda (anche avvocati, e giudici: ma questo accade pure in Italia). Il nostro Ambarish Satwick de Il Basso Ventre dell’Impero è chirurgo vascolare a Delhi, e ogni tanto se ne trova qualcuno a Singapore, a Jakarta, a Kuala Lumpur. Ne abbiamo parlato, con Kalpana, e lei mi ha fatto un discorso che ho già sentito.

Mi ha detto che la medicina, l’anatomia, la tecnica chirurgica costruiscono linguaggi. Che formarsi su un testo accademico di medicina (costruirci sopra quindi non solo la professione, ma anche la propria giovinezza) è un esercizio mentale che va oltre la disciplina in questione, è un mondo intero che si apre. Insomma: il gergo tecnico come un mondo parallelo.

Kalpana scrive spesso in coppia: con Ishrat Syed, anche lui chirurgo che con lei si fonde nello pseudonimo Kalpish Ratna. Lalli è di Kalpana, ma Uncertain Life and Sure Death è il capolavoro di Kalpish Ratna, un impubblicabile saggio in forma narrativa su una pestilenza del XVI Secolo a Bombay che è un virtuosismo linguistico perché mezzo trattato di scienza medica mezzo racconto individuale. (A ben pensarci: e il libro del chirurgo vascolare Ambarish Satwick non è forse un trattato di linguistica applicata?).

Così come di Kalpish Ratna è Quarantine Papers, un romanzo che non ha avuto grande fortuna in patria, ma che ci presenta un fascinoso racconto dell’India coloniale mescolando medicina, storia, arte: con i loro linguaggi specifici, e il tutto shakerato nel noir.

A me viene in mente (glielo ho raccontato) un corso di scrittura tenuto da Giuseppe Pontiggia nella Milano degli anni Ottanta. C’ero anch’io, e sui gerghi Pontiggia costruì una lezione di un’ora, raccontandoci come i testi universitari di anatomia fossero tra le sue letture preferite. Ora è difficile ricordarne i dettagli, ma ricordo una sua appassionata dissertazione sull’uso degli avverbi in quei testi.

Pontiggia sosteneva che il mestiere dello scrittore non è quello di raccontare storie, ma invece quello di innovare il linguaggio: e cioè di lavorare sul filo di una lingua corrente modificandola di continuo, portandola ogni passo più in là. Mostrando dentro alla sua scrittura proprio questo gioco di frattura e ricomposizione, come un equilibrista sull’abisso.

Per chiarire il concetto con un esempio ci parlò a lungo anche di calcio. Prima ricordando il grande Gianni Brera come un Arbasino della cronaca sportiva. Poi spiegandoci che il gioco del calcio è in sé un linguaggio: infatti lega persone diverse (i giocatori di una stessa squadra) che devono al contempo capirsi tra di loro con i movimenti del corpo, e ingannare gli avversari con gerghi a loro ignoti, o nuovi. E, diceva Pontiggia, i grandi del calcio sono coloro che sanno inventare dalla tradizione un linguaggio nuovo: secondo lui il più grande fu Platini.

(Di Platini ho provato a raccontare a Kalpana, con un po’ di vergogna. E lei? Mezzora sul cricket!).

Raj Rao, quattro anni fa a Bombay

Avevo trovato il suo The Boyfriend (Il mio ragazzo) in tutte le librerie di Bombay. L’avevo letto, mi era piaciuto.

Non solo avevo scovato quel che cercavo, un romanzo che dimostrasse l’esistenza di un India nuova, contemporanea, capace di affrontare temi che sono anche i nostri, lontana dalle saghe famigliari di villaggio, a base di sari colorati e spezie.

La storia di un amore omosessuale a Bombay aveva la capacità di raccontare la città in molti suoi aspetti: la vita dei professionisti a cavallo tra giornalismo e pubblicità, la relazione tra le caste e i ceti sociali alti e gli intoccabili, anche le bombe e gli scontri tra fondamentalismi religiosi che hanno segnato la storia dell’India. Qualcuno, in Italia, mi aveva fatto notare: è un romanzo di costume, c’è poca letteratura alta. Sì, embè? Perché Pennacchi o la Avallone, allora?

Trovato il contatto, scoperto che il Professor Raj Rao dell’Università di Pune scendeva sempre a Bombay nel weekend, gli ho chiesto un incontro.

Cinquant’anni suonati, nessuna intenzione di esibire la propria omosessualità, Rao mi viene incontro davanti all’ingresso del Regal Cinema, uno dei luoghi simbolo della South Bombay. Non dovrei descrivere così uno dei più grandi scrittori indiani contemporanei, lo so: ma mi ha fatto l’effetto di un cagnolone che ti viene incontro con le orecchie basse, orecchie peraltro parecchio aperte ai lati del viso (una volta si diceva “a sventola”).

E un atteggiamento di dolore composto e trattenuto, una malinconia questa sì esibita, ma senza rancori, senza rimostranze. Vestito con blue jeans e camicia dello stesso colore, mi ringrazia con un certo ossequio per la mia decisione di pubblicarlo in Italia.

Io commetto l’errore tipico dei quelle mie prime settimane a Bombay: lo invito in un noto ristorante di Colaba, dove la qualità delle pietanze non è necessariamente superiore a quella dei ristoranti popolari (quindi eccelsa), ma lo sono i prezzi, e lo status dei clienti: siamo all’Indigo, giusto alle spalle del Taj Mahal Hotel, cucina fusion tra la francese e l’indiana, molti bianchi, indiani giovani stile Bollywood (cioè l’aria tamarra, camicia aperta sul petto, oro ai polsi e barba non fatta), indiani anziani stile funzionario di governo (kurta bianca e pancia prominente, arrivati sulla vecchia Ambassador bianca con autista e lampeggiane sul tetto).

È evidente la timidezza di Rao in questo ambiente, ma anche qui dovrei dire: timidezza contenuta, che non gli impedisce di richiamare un cameriere per precisare la sua ordinazione, ma vedo che gli sguardi che si lancia attorno sono di controllo. Preferisce un tavolo addossato al muro, e a tratti mi parla appoggiandosi con una spalla al muro stesso, un gesto da ragazzo.

Leggendo i suoi racconti (quelli che abbiamo appena pubblicato), avevo capito che mi trovavo di fronte a un autore di livello, ben determinato a non nascondere, anzi a rilevare nella scrittura la propria omosessualità.

Un intellettuale che nel corso di una già lunga vita ha affrontato le ovvie difficoltà (recentemente ha vinto una battaglia in università per ottenere il posto che gli spettava di diritto, Vice-Chancellor), e che si è abituato a muoversi con il passo lento e regolare di chi sta camminando in salita, su per un ghiaione di alta montagna, cercando di mantenere la propria velocità al di sotto della soglia aerobica (insomma: senza doversi fermare ogni cinquanta passi per il fiatone), tenendo per sé una fatica di cui è meglio dimenticarsi, senza stare mai a domandarsi perché si è scelto di camminare in salita, ma continuando passo dopo passo, difendendo l’integrità e la serenità del proprio pensiero: una libertà sotto tutela, insomma.

Ripensandoci, è quando gli ho chiesto quanto la propria condizione di omosessuale lo mettesse in pericolo in questa India ancora pervasa di fondamentalismo religioso e maschilistiche ovvietà, che Rao si è per la prima volta appoggiato con la spalla al muro, parlandomi.

Dopo la cena mi ha portato nel luogo simbolo del suo romanzo, tappa fondamentale della propria esistenza: il Testosterone, discoteca gay aperta da un decennio a Bombay lungo l’Apollo Bunder, in faccia al Gateway of India, a due passi dal Taj e soprattutto di fianco al Radio Club, un circolo tutto legno e vetri smerigliati per ricchi signori che immagino disturbati da una tale contiguità. Dal Testosterone escono i protagonisti de Il mio ragazzo la notte nella quale, rompendo davvero gli schemi, invece di lasciarsi intimidire da due poliziotti con i baffoni regolamentari (che sono lì, come è ovvio, a pretendere il servizietto gratis, lo stupro della Legge), li pestano per bene, tra le risate.

All’ingresso Raj mi presenta al cassiere, un po’ spaventato della mia presenza (scoprirò di essere l’unico bianco all’interno, l’accordo con le autorità quattro anni orsono era: non coinvolgete i turisti, tanto meno quelli in cerca di ragazzini; il Testosterone resta aperto, pare, grazie ai favori di qualche alto papavero, per motivi non specificati, con le intuibili relazioni di vassallaggio che Rao ben descrive ne Il mio ragazzo).

Sono il suo editore italiano, voglio vedere i luoghi descritti nel romanzo. Dentro, in un antro scuro che pare un centro sociale, con pochi tavolini e tanti ragazzi appoggiati alle pareti, i pochi che stanno ballando si ritraggono, al nostro ingresso. Raj mi chiede di aspettarlo e va a salutare qualcuno. In realtà, mi spiega, deve rassicurarli. Due ragazzini, con un po’ di trucco sugli occhi, mi si avvicinano con qualche moina. Rao mi dirà: sono molto pericolosi, anche violenti, il padrone non riesce a tenerli fuori dal locale.

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