Pensierini asiatici: sull’identità delle classi medie

Il nostro Chan Ho Kei (occhèi, occhèi…), con la sua passione per le amnesie dei suoi personaggi, fa venir voglia di ragionare un po’ sulla questione dell’identità. Più di quanto sia successo a noi in una storia recente la generazione dei trenta quarantenni si confronta con scenari nuovi, e sperimenta sicuramente una rottura con il passato (forse con le visioni del mondo dei propri genitori).

Zheng Yu Ran è una giovane cinese, che si è precipitata a incontrarmi in un ristorante del 697 (il quartiere degli artisti di Pechino) al volante di una Mini fucsia, di quelle con le orme da cagnolone disegnate sul cofano e un grosso orsacchiotto di peluche sul sedile posteriore. Zheng Yu Ran scrive fantasy: eroi con gli spadoni capaci di spostarsi nel tempo e nello spazio. Uno dei suoi punti fermi sono le porte che si aprono su realtà parallele: oltre i confini della realtà, dunque.

Intimidita dalla presenza di uno straniero (parlava come se stesse stringendo a sé l’orsacchiotto) mi diceva con grande naïveté che loro, i giovani della Cina contemporanea, hanno alle spalle una letteratura profondamente legata al reale: sia esso immaginario come ai tempi del realismo socialista, sia esso veritiero come nel caso delle ultime due generazioni di scrittori: che sentono l’urgenza di rimasticare la Rivoluzione Culturale e i suoi orrori e traumi, così come la fine anni Ottanta e la repressione culminata con Tienanmen.

Zheng Yu Ran dice: tutti restano così profondamente legati alla società, ai suoi problemi, che noi più giovani ce ne sentiamo sopraffatti. E quindi preferiamo fuggirne, costruiamo mondi di fantasia. Non so molto dei mondi che costruisce Zheng Yu Ran, ma è chiaro che il tentativo di questa generazione più giovane sia quello di costruire un proprio universo completamente svincolato da quello dei padri (pensiamo del resto al nostro Han Han, al personaggio di Le tre porte la cui caduta corrisponde alla sua incapacità di costruire una visione di sé a partire dalla parole e dalle narrazioni della tradizione).

(Se è questa la direzione, qui si somma peraltro una seconda rottura alla prima rottura, quella del comunismo, che per quarantanni ha cancellato ogni forma di tradizione letteraria).

Una generazione di figli unici, in fuga verso lo spazio interstellare. (Le ho chiesto: ma in questa Pechino che cambia così tanto, non ti viene voglia di ambientare una storia? E alla parola Pechino a Zheng yu Ran si illuminano gl occhi e dice sì: sì, io me la ricordo la mia città dieci anni fa, le casette basse, gli hutong di pietra grigia e ardesia, i tetti con i riccioli e la statuetta dello spirito sulla grondaia, le corti interne, i panni stesi e le persone sedute sui gradini, sempre a contatto gli uni con gli altri, e se vedo la Pechino di oggi mi spavento, gli hutong sono stati rasi al suolo, son venuti su questi enormi palazzi, non proprio grattacieli ma dieci, quindici piani, e centri commerciali e dove c’erano biciclette ci sono motorini (elettrici) e tante auto e le highway sugli Anelli intasate di traffico e il metrò: e allora, Zheng yu Ran, a te non viene la necessità di raccontarla questa storia, di buttar fuori i pensieri che ti affollano la testa?

Sì, dice lei, però meglio il fantasy. Cosa ne resta, della tua Pechino che cambia? Non so forse la lotta, gli individui soli, e l’amicizia. (Più tardi mi lascia una perla: ma i vostri Macbeth, gli Amleto, i Re Lear, non erano forse supereroi? Principi, corone cha passavan di testa in testa, prigioni segrete e pozioni avvelenate: ma per il popolino londinese che affollava il teatro questi stavano nella fantascienza, no? Erano alieni: eppure!) (Io: da ragazzo non leggevo che fantascienza, anch’io forse per emendarmi da una fossilizzata tradizione letteraria di famiglia e dalle ossificate narrazioni, la foresta pietrificata delle Cose Belle e Giuste).

Del passato aveva scritto la mia amica Chen Danyan, da Shanghai, che a me pare il prototipo (che brutta parola…) dello scrittore che racconta le sue storie per necessità. Aveva cominciato con un Nine Lives pubblicato prima all’estero (Zurigo!?) e poi rieditato in Cina: la Rivoluzione Culturale, i suoi ricordi da bambina, la separazione dal padre. Poi, sfondato con quel primo libro il muro della censura in Cina (e il trauma), ecco il grande romanzo e il piccolo romanzo: una novelletta sulle difficili relazioni di coppia nella Shanghai primi anni Novanta (il nucleo monofamiliare minacciato dalla pluralità della relazioni del ceto medio), e il lungo resoconto in due volumi, più di mille pagine, più di tre generazioni, la Shanghai coloniale, quella maoista e quella del libero mercato.

Resto convinto che molti scrittori raccolgano il loro materiale narrativo dentro a un mondo conscio e inconscio che, letteralmente , li aggredisce, e che la loro parola scritta consenta di dar corpo a questo universo che altrimenti andrebbe in fermentazione.

Daniele Del Giudice, italianissimo poeta, mi disse una volta che scrittore è chi porta in sé una malformazione: quella di non saper comunicare in forma diretta (e quindi sceglie la forma romanzo, così come l’attore, così spesso un timido, si nasconde e si rivela dietro alla maschera del personaggio). Io rispondo che forse non esiste una forma diretta che consenta lo “scarico” (il download) urgente e indispensabile a uno scrittore.

E allora, se ho da dire, a chi dico? La sfida naturalmente, la bussola potremmo dire: costruire una narrazione coerente, e soprattutto farsi ascoltare, farsi leggere.

Non tutti così, gli autori “de nicchia”, i serial best sellers o i poeti o gli sceneggiatori: ma così è Chen Danyan, capace di portarmi nei luoghi reconditi di Shanghai a bere del the dentro a giardini secolari e silenziosi, a raccontarmi il suo libro ultimo: quel non fiction che raccoglie le storie dei giovani volontari partiti da Shanghai per le zone devastate dal terremoto, tornati casa con l’impressione di essersi costruiti una famiglia: di altri figli unici come loro, finalmente uniti da una esperienza forte (in Cina, lo ricordate, ogni coppia può fare un figlio solo), finalmente famiglia.

L’ho vista due volte in vita mia, Chen Danyan, poche ore in tutto. Nel tempo intercorso tra i due incontri lei bel bella se ne è venuta in Europa (con la Transiberiana) senza dirmi niente, ha percorso l’Italia da sola, godendosi gli incontri sui treni, inventandosi delle amicizie di cui lei faceva la bussola del proprio percorso, e senza farsi sentire da me: perché non mi hai chiamato? Volevo incontrare persone che non conoscevo ancora. Oggi mi porta in un ristorante senza pretese della French Concession di Shanghai, tra le sue villette basse e dei platani centenari ma potati e restare come bonsai, tre quattro metri di altezza al massimo. Pranzo superbo. E quando mi saluta ha i lucciconi agli occhi: chissà quando ci rivedremo.

In Italia, in Europa, il boom economico del Dopoguerra ha costretto la generazione che veniva alla luce in quegli anni a una lunga lotta: imporra la visione del mondo nuova, svelare, pretendere che il mondo toccasse con mano sé stesso e non solo i vecchi simulacri. Eravamo in tanti, sempre a far gruppo (e branco, purtroppo). In Cina, più o meno davanti allo stesso snodo, sono tanti. Ma ciascuno per suo conto, figli unici per destino.

(E i nostri figli che leggono fantasy in Italia son figli unici? E io che leggevo Asimov, io figlio di cos’ero?)

Foto: Nico From Paris

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