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Un Incontro con Tew Bunnag

Di Massimo Morello, traduttore de Il Viaggio del Naga

Tropical Malady: sindrome che si manifesta con indistinto malessere, spaesamento, senso d’abbandono, languore, crisi della personalità e mistica. Il nome deriva dal film che ha reso noto il regista thai Apichatpong Weerasethakul. La Tropical Malady è come la malaria: resta latente per qualche tempo, poi riappare all’improvviso, col calore o l’umidità.

Tew Bunnag, autore de Il viaggio del Naga, è un portatore sano di Tropical Malady. Quando lo incontri, lo leggi, innesca una crisi. Accade perché Bunnag, quale incarnazione di un vissuto, di un karma, focalizza i pensieri sul biota Thailandia in cui la Tropical Malady si manifesta in forma benigna o maligna. È il paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, del sabai, il benessere, dove il mantra più comune è “mai pen rai” (traducibile col titolo della canzone “Don’t Worry, Be Happy”, a sua volta citazione del guru indiano Meher Baba). Ma è anche un Regno di conflitti più o meno latenti, disuguaglianze sociali, traffici oscuri, perversioni. Un paese in cui spiritualità, magia, filosofia, superstizione, miti e riti sono inestricabili (come nei film di Apichatpong). Non a caso Bunnag cita spesso Joseph Campbell, studioso di mitologia comparata.

Bunnag non ha paura di confusioni e contaminazioni. «La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante» dice. «Serve per arrivare alla nozione di Dio». Le sue posizioni sembrano avvicinarsi più al buddhismo Mahayana che al Theravada diffuso in Thailandia, la corrente più legata alla tradizione. Proprio in questo si richiama al concetto di Campbell dell’Eroe come archetipo. «Nel Theravada hanno messo in secondo piano il Bodhisattva (chi raggiunge l’illuminazione ma sceglie di restare nel mondo per fare da guida), l’archetipo di come essere nel mondo. Il mio approccio è: Come possiamo vivere in questo mondo? ».

Bunnag ha provato diverse vite. Nasce in una delle più nobili e importanti famiglie thai, che vanta diplomatici, ministri, dignitari di corte. Parte della sua infanzia la trascorre a palazzo reale. Poi, come tutti i giovani dell’ammart, l’élite, va alla scoperta del mondo. Alterna Oxford ai viaggi in Oriente. «Nella Londra anni ’60, l’interesse della beat culture era volto a Oriente. E io mi dicevo che in fondo provenivo proprio da là. Casi della vita» ricorda. Passa dalla dolce vita della Kabul d’allora, al misticismo allucinato di Katmandu. Con qualche stop nei fumosi bistrot della contestazione parigina.
Trasferisce tutte queste esperienze in una Thailandia che era la tessera centrale nel domino della guerra in Indocina e sfugge al destino di molti studenti contestatori solo grazie alla protezione concessagli dal suo status familiare. Forse per questo – ma non ne parla – si rifugia nella meditazione, nella pratica delle arti marziali interne, di cui diviene Maestro. «Tutta la mia vita spirituale riprese vita. Il tai-chi mi aiutava a vivere, mi ha anche aiutato a guarire da un brutto momento psicofisico».

Poco a poco, in forma diversa, da contestatore si reincarna in difensore della tradizione. «Con l’età l’anarchia può trasformarsi in elitarismo» confessa. «Come buddhista m’interessa comprendere come i vecchi valori si siano adattati o meno a questi tempi di produzione aggressiva e consumismo» si presenta. «Come scrittore ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto – non sempre è uno scontro – tra tradizione e modernità. Specie nella surrealtà urbana».

Bunnag è un personaggio di tale surrealtà. Apparve così sin dal primo incontro, anni fa. Era alla Author’s Lounge dell’Oriental di Bangkok, uno dei mitici Grand Hotel d’Asia. Arrivava da uno degli slum della città dove lavorava (e continua a farlo ogni volta che torna in Thailandia) in un centro d’assistenza per malati d’Aids. E così spiegava le possibili contraddizioni esistenziali. «Dipende da come le vivi, da quale valore dai a quello che hai. Da come sei connesso col resto del mondo, dalla coscienza della sofferenza». Sembrava che Bunnag traesse forza da quelle stesse contraddizioni. «C’è un certo conforto nella decadenza. E’ come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza. A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

In tutti gli altri incontri, di persona o elettronici – nel frattempo ha sempre più protratto la sua permanenza in Europa, in Spagna – Bunnag ha continuato a trasmettere la sensazione di muoversi e far muovere lungo linee d’equilibrio che intrecciano le trame della Thailandia. Nei suoi racconti, a voce o scritti, apparivano e si spiegavano le storie e i personaggi che animavano la vita del Regno: gli hi-thai, i protagonisti dell’alta società, nobili, attori o neocapitalisti, i phrai, il popolo dei più poveri, la rivoluzione dei “rossi” e l’economia sostenibile teorizzata dagli ultraconservatori. «La sfida è trovare una nuova via di sviluppo. Il concetto peggiore del capitalismo è che ti fa sentire in diritto di pensare che tu puoi far star male gli altri».
Poi, lo scorso autunno, si è materializzato il Naga, l’incubo descritto qualche anno prima nel romanzo di Bunnag. Non sino alle sue estreme conseguenze, per fortuna, ma è apparso come una premonizione della premonizione, di quando Bunnag continuava a chiedersi: «Dove sono finiti i canali di Bangkok?».
Privata dei suoi klong, i canali che ne garantivano l’equilibrio idrico, Bangkok è stata in gran parte sommersa dall’acqua. Come circa 15.000 chilometri di Thailandia. Quasi mille le vittime.

Il Naga, come aveva scritto Bunnag, ha messo in evidenza le fragilità di un sistema. Quello thai, ma anche quello asiatico, troppo frettolosamente indicato quale protagonista di un nuovo secolo che dovrebbe segnare il tramonto dell’Occidente.

Infine, ma solo perché ci vuole tempo per metabolizzarla con molta sgradevolezza, il Naga ha fatto percepire tutte le fragilità di chi a Bangkok ha scelto di vivere. Ha provocato una profonda crisi di Tropical Malady. «Vivo in una dimensione sempre più strana» mi aveva detto Bunnag poco tempo prima «Non so esattamente che fare». Ormai da troppo tempo non credo alle coincidenze.

Massimo Morello tiene un bel blog da Bangkok: www.bassifondi.com

Un’intervista a Han Han

Il Financial Times ha incontrato di recente Han Han (autore con Metropoli d’Asia di Le tre porte).

Nell’intervista si parla approfonditamente di diversi aspetti legati alla politica e alla possibilità di riforme in Cina, e come spesso accade è anche ricca di una serie di elementi di contorno.

Il viaggio del Naga su Asiaexpress

Il sito Asiaexpress, specializzato in cinema asiatico, ha parlato di Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag.

In una metropoli che non si è mai affrancata dal suo universo ancestrale, un ex monaco, un pittore e una produttrice, un tempo famosissima star del cinema, si incontrano casualmente al funerale di uno di quegli asian godfathers che controllano i traffici del continente.

(continua a leggere su Asiaexpress)

Tew Bunnag segnalato su La Lettura (Corriere della Sera)

Ecco la segnalazione ricevuta da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag, ricevuta sul supplemento La Lettura del Corriere della Sera.

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Il viaggio del Naga su Urban

La segnalazione del mensile Urban per Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag, appena uscito per Metropoli d’Asia.

Il viaggio del Naga

Non ho mai incontrato di persona Tew Bunnag. Ci siamo sentiti più volte, certo, per telefono e via Skype, ma io non l’ho mai visto in faccia, contrariamente a quel che è successo con tutti gli altri autori di Metropoli d’Asia (e che esagerando un po’ rivendico come una conquista personale) .

Mi piace prendere la decisione definitiva su un romanzo dopo aver visto il suo autore, dopo aver speso del tempo con lui o con lei, in modo da capire meglio quale esperienza abbia generato la sua scrittura, quale personalità, e visione del mondo o di sé stessi conduca all’urgenza, alla necessità di scrivere.

Ho incontrato Massimo Morello, invece, che del Naga è stato il traduttore. Giornalista italiano di stanza a Bangkok, avventuriero delle notizie e delle storie di quel pezzo di mondo, che lui con difficoltà riesce a far passare dentro a una nostra mediasfera ormai ancorata alla ripetizione del già detto, alla via vecchia piuttosto che alla nuova. Propensa a rassicurare il lettore (nulla cambia, siamo sempre dentro a una stessa trama) piuttosto che a stupirlo con ciò che non conosce.

Trovare Morello – Max – a Milano, davanti alla mia scrivania, rappresentava un po’ un coronamento del lavoro di tre anni: un traduttore, dimostrando di aver perfettamente compreso la politica editoriale di Metropoli d’Asia, viene a propormi di sua iniziativa un romanzo ambientato in una delle grandi metropoli del Sud-est, con tre protagonisti – un intellettuale che ha provato e poi rinunciato a farsi monaco buddhista, un pittore e poeta, una produttrice cinematografica e attrice – perfettamente inseriti in una scena contemporanea, eppure mai affrancati dalla cifra secolare di Bangkok, dentro a un campo di forze che resta dominato da valori, o abitudini, o spiriti, o tradizioni, o ambientazioni inconsce e legami immateriali, siano esse amicizie o amori e prossimità o invidie (scusate la lunga locuzione: conoscete un modo migliore per non utilizzare la parola spiritualità? Perché quella parola a me sa troppo di luogo comune, stereotipo) che trascendono il tempo presente.

La indefinibile apparizione del Naga – il dio serpente che rappresenta l’acqua, forza creatrice e distruttrice allo stesso tempo – nelle vite dei nostri tre eroi sarà spunto per il cambiamento, annuncerà e accompagnerà la svolta.

L’apparizione di Morello davanti alla mia scrivania mi ha aperto la strada della Thailandia, così come la pubblicazione di Naga’s Journey a Bangkok e la sua distribuzione nel mondo ne ha accompagnato la storia recente: perché Tew Bunnag ha saputo dimostrarsi profetico, indovinando prima del loro accadere le tensioni tra rossi e blu nella politica Thai, e soprattutto la gigantesca alluvione che, lo scorso novembre, ha seppellito e messo in ginocchio la città.

E allora speriamo davvero di riuscire a incontrarlo, quest’autore, di cui abbiamo sentito raccontare tanto, ma in modo un po’ vago, forse distorto, forse allusivo. Al punto che non ce la siamo sentiti di raccontarlo apertamente, di farne una suo bio completa per il risvolto di copertina e nel nostro comunicato stampa. Ad esempio ci è stato detto che Bunnag viene da una delle più importanti e più antiche famiglie della Thailandia, che di questa famiglia che vanta importanti uomini di stato lui sia una sorta di pecora nera, che per questo abbia deciso di costruirsi un’altra mezza vita in Spagna, a 10.000 chilometri di distanza.

Che nel formarsi della sua personalità molto abbia contato il suo essere maestro di Tai Chi (o di Taijiquan? Anche questa andrebbe chiarita), che è la versione meditativa del Kung Fu, e che lui sia un esperto di arti marziali, più di quanto non emerga dai suoi libri sul tema. Cose che lui, a voce, nega o conferma a mezza bocca.

Abbiamo bisogno di vederlo Tew Bunnag: speriamo di poterlo avere in Italia, di poterlo presentare al pubblico, a raccontarci tutto. A dirci, soprattutto, come ha fatto a prevedere la furia delle acque, il Naga.

E poi vorremo vedere Morello: il medium che per noi ha evocato Bunnag. Prima che si stufi definitivamente dei nostri media, e vada magari a ritirarsi in una lontana e sperduta isola, insieme a qualche monaco: da cui tornerà, come il Phra Boomtan del romanzo, per reimmergersi in un mondo nuovo, più interessante.

Il viaggio del Naga (in libreria dal 26 aprile)

Autobiografia di un indiano ignoto su Indian words

Un’altra recensione di un libro di Metropoli d’Asia su Indian words. Questa volta si tratta di Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao.

Non è la prima volta che in un libro il protagonista vuole uccidere Salman Rushdie (d’altra parte sono in molti che lo vorrebbero uccidere).
In Piccolo soldato di Dio di Nagarkar era un aspirante terrorista islamico, nel primo racconto di questa raccolta di R. Raj Rao, con una simile dose di ironia, è un sosia di Rushdie che non ne può più di essere minacciato al posto suo.

(continua a leggere su Indian words)

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Zhu Wen

Zhu Wen mi aveva accolto con molti onori. Arrivato a Pechino per la mia prima volta, io ero l’unico editore straniero che avesse deciso di tradurre e pubblicare Dollari la mia Passione (ci fu anche un’edizione francese, ma solo un paio d’anni dopo: Metropoli d’Asia apriva la strada).

(continua…)

I miei luoghi su Indian words

I miei luoghi, di Annie Zaidi, sul sito Indian words.

I luoghi di Annie Zaidi sono i luoghi di un’India un po’ insolita, di un’India meno conosciuta e meno urbana di quella di cui di solito leggiamo.
Il Punjab, il Madhya Pradesh delle popolazioni tribali, il Chambal dei banditi.
Ma il pregio di questo reportage è quello di essere un viaggio molto personale in questi luoghi, che unisce l’abilità di una giovane giornalista indiana a una forte partecipazione emotiva, senza mai nascondere (né ostentare) una certa fragilità.
A differenza di altri reporter, che pure mi piacciono, qui mancano – finalmente – l’eroismo da una parte e la finta modestia dall’altra.

Una rivista, un intellettuale, una rivolta: da rivedere a Londra, domani

Ou Ning mi spaventa una sera a cena, dichiarandomi l’intenzione di cercare un incontro con Toni Negri quando visiterà Parigi, in aprile. Di tanti, proprio lui? Provo a spiegargli i danni (eufemismo) fatti nella seconda metà dei Settanta da questo ineffabile professore, che lasciò dietro di sé una scia di delitti e qualche migliaio di ragazzotti in galera, e si accomodò poi nella bellissima Parigi.

Gli dico anche: ecco, se devo fare un paragone, per la sua arroganza e violenza, per il disprezzo dell’avversario e per il fanatismo, Negri mi fa pensare alla vostra Rivoluzione Culturale: che fu ribellione contro la burocrazia, ma presa dal lato sbagliato (eufemismo).

Ou Ning (che come tanti nel mondo lesse Impero, bigino e instant book no global del professore, che mettendo in fila buoni pensieri elaborati da altri migliori di lui si vide così moltiplicata d’acchito la quota di mercato), mi capisce: certo, dice, prima di scrivere del presente, avrebbe dovuto “chiedere scusa per il passato” (locuzione che immagino sia una traduzione abborracciata nel suo inglese scarso del “fare autocritica” in cinese).

Perché la ribellione che cerca Ou Ning è sicuramente differente. La sua Chutzpah (qui c’è anche una sua buona biografia) è una rivista di letteratura pura, nonostante il nome (parola che in yiddish significa “insolente”, o “faccia tosta”, e che lui riproduce senza però una particolare vocazione alla storia dell’ebraismo: lo fa così, gli piace il termine).

Intende portare all’attenzione del pubblico (in parte internazionale perché al suo interno l’inserto Peregrine traduce ogni volta tre o quattro racconti in inglese, dei trenta che Chutzpah presenta in cinese) la generazione di quarantenni, a suo dire schiacciati tra i più vecchi nomi noti dell’editoria internazionale (ad esempio Mo Yan, e poi a cascata Yu Hua, Yan Lianke, Su Tong, Bi Feyu) e la generazione del giovanissimi, mezza sesso e rock and roll, mezza blog (tra parentesi, Ou Ning mi parla malissimo di Han Han, che secondo lui è una versione edulcorata del potere, un ribelle di facciata, e quando invece gli chiedono chi sia il migliore scrittore cinese contemporaneo dice senza esitazione: Zhu Wen! Come a dire: Metropoli d’Asia ha il meglio e il peggio).

La generazione che interessa a Ou Ning è quella nata nei primi settanta: la sua, che da giovanissima ha visto le timide aperture della censura nella seconda metà degli Ottanta, e si è poi schiantata contro la repressione di Piazza Tian an Men.

E questa generazione oggi osserva e rendiconta con favore ciò che si muove nel paese di mezzo, su tutte la ribellione di Wukan: una cittadina intera che scende in piazza contro la corruzione dei dirigenti di partito locali.

Ou Ning quindi, che è stato a Milano ospite del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, cerca incontri con i ribelli d’Europa (da un punto di vista intellettuale, certo): a Roma andrà al Teatro Valle Occupato, a Parigi s’è detto, a Milano Stefano Boeri gli promette un incontro coi Wu Ming che però non si realizza. Dopo il rush milanese, purtroppo, parte in fretta per Londra (e chi incontrerà laggiù?).

Io passo quindi qualcuna delle mie giornate a ruminare, in ritardo: ma chi avrei potuto presentargli, io? Cosa avrei potuto dirgli? Come indirizzarlo su intellettuali, scrittori, artisti consci del fatto che le ribellioni e le rivoluzioni comportano sempre un pericolo: non solo l’eterogenesi dei fini, ma banalmente la costruzione di leaderships orrende (i miei conoscenti fine anni Settanta in Italia si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che hanno sfiorato la criminalità politica e si sono adagiati su un proprio fallimento, e quelli che direttamente si impiegarono a Mediaset; schematizzzo, è ovvio: ma come si fa a fomentare una ribellione che in sé contenga i germi del meglio e non del peggio? This is the question). Discorso che vale per tutti i no Tav nostrani, e grillini, o chissà che.

Eppure lui, loro, gli elementi per starci attenti ce li hanno: appunto, la Rivoluzione Culturale, quando Mao diceva “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, e il risultato furono orrori e vite spezzate, in cambio di nuovi equilibri negli apparati dirigenti (tipo: un Berlusconi al posto di un Andreotti, un Bossi al posto di un Almirante o di un Toni Negri, magari un Di Pietro al posto di un D’Alema, e chissà cosa ci riserva l’oggi). Ou Ning, vorrei dirgli: perchè il rappresentante dei ribelli in Cina è stato Bo Xilai (oggi silurato), che dichiarava di rifarsi all’ortodossia maoista?

E di nuovo: chi gli faccio leggere? Chi gli faccio incontrare? Un manciata di nomi: Colin Ward, ma crederete mica che basti. E a Roma avrebbe potuto incontrare Pascale, Piccolo, quelli de Lo Straniero, forse. E sopratutto: io chi incontro? Chi si ribella sapendo nessuna Causa giustifica nessuna Schifezza, che le rivoluzioni non riguardano i fini, ma i mezzi? Ou Ning, questo potrebbe essere il vostro ruolo: prevedere e precedere la degenerazione dei movimenti, mettere in guardia fin d’ora.

Ma ora: pausa. Questo post poteva avere un altro incipit. Avrei scritto:

Ou Ning, a Pechino, una sera a cena mi racconta dei suoi anni ottanta. “Eravamo giovanissimi, e allora chi poteva viaggiare in Cina era fortunato. Se arrivava a Pechino qualcuno da Nanjing, passavamo le nottate a parlare di filosofia, di letteratura. Bevevamo. Alla fine ci conoscevamo tutti, poche centinaia di ragazzi usciti dalle università, ci sembrava che il futuro fosse a un passo. Il primo Deng Tsiao Ping aveva aperto il nostro paese: improvvisamente si discuteva senza paura.” Mi dice: si fumava tantissimo.

Quando provo a domandargli di Piazza Tian an Men, come al solito svicola. Fa finta di non sentire la domanda: l’ho capito, puoi essere ovunque, Pechino, Milano, o Singapore, puoi essere davanti a un pubblico con un microfono in mano o davanti a una salsiccia, io, lui, e la sua fidanzata, ma è sempre la stessa cosa: di quello non si parla. Criticare la Rivoluzione Culturale è possibile, e il potere, la corruzione, i singoli leader di partito, o la manutenzione ferroviaria e la distruzione dei generi alimentari. Ma silenzio sulle three T (Tian an Men, Tibet, Taiwan) one F (Falun Gong). E quando gli chiedo di Wukan, della rivolta di una cittadina intera, lui svicola: e, appunto, si finisce su Bo Xilai.

Insomma, ribelli con il limite: ribelli davvero.

Bello: questo sì un ponte tra l’Occidente e l’Oriente, loro e noi alle prese con una rivolta, e con la necessità di farle partire con il piede giusto, ciascuno con un passato che di riferimenti è pieno.

PS: Berardinelli sul domenicale del Sole24 la settimana scorsa, dentro a un articolo fortemente condivisibile, scriveva: in occidente oggi avremmo bisogno di un Lenin, o forse di un Ghandi. Hmm…: ma non dovremmo cercarci di meglio, noi e i cinesi?

PPS: con Ou Ning ci siamo dati appuntamento il più presto possibile, a Pechino. Sperando di trovarlo libero e non blindato…

E domani a Londra!

Foto: Alessandra Vinci

 

 

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