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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su autori

Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag

Ma un pomeriggio, sul finire della stagione delle piogge, tutto cambiò. Le telefonò chiedendole di raggiungerlo subito in ambasciata. Non l’aveva mai fatto prima ed era ancora più inconsueto perché si sarebbero dovuti incontrare solo poche ore dopo, per la cena. Disse che non poteva spiegarsi al telefono, lasciando Marisa in uno stato d’animo di vaga aspettativa mentre procedeva nel traffico verso l’ambasciata. Pensò perfino che lui fosse impaziente di vederla perché la desiderava. Ma quando arrivò sul posto e fu accompagnata in una saletta da un compassato funzionario, capì che c’era qualcosa che non andava. Eduardo entrò ma non la baciò. Poi, senza preavviso, lisciandosi la barba ben curata e girando intorno a un tavolo di marmo come se fosse sottoposto alla pressione di una grave crisi diplomatica, dichiarò che non potevano più vedersi, che a breve avrebbe lasciato Bangkok, che lei avrebbe dovuto portare via subito tutte le proprie cose da casa sua. Disse che gli dispiaceva, ma non spiegò in alcun modo il suo comportamento.

Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag

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Da Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya

«Nolen! Nooo-lee-n! Figlio di buona donna! Cos’è, ti sono cresciute le alghe nelle orecchie?» urlava Bhodi dal tetto.
Un gruppo di corvi mangiava scarti di riso soffiato in un angolo del terrazzo. In una vasca sgangherata stava una pianta morta di basilico sacro, con fiori marci sparsi intorno alle radici. Il terrazzo spoglio era coperto di muschio. Nelle fessure tra i mattoni strisciavano lumachine tonde tonde. Stava spuntando anche un giovane albero di baniano. Sul terrazzo c’era, come sempre, una stuoia unta, dai bordi sfilacciati, con sopra una vecchia scatola di latta arrugginita piena di cotone, una lente d’ingrandimento dei tempi di Matusalemme, pezzi di vetro rosso e blu, e una copia dell’«Anondobajar» che cercava costantemente di volare via benché fosse tenuta ferma dal peso di un mattone. Bhodi si avvicinò a un angolo del terrazzo spoglio per guardare in basso, verso il cortile. Nolen coglieva dei fiori di gelsomino e li metteva su un vassoio di bronzo.
«Stavo gridando come un’aquila per chiamarti, disgraziato! Non ti funzionano le orecchie?»
«Ah, non ho sentito. Devo andare?»
«Vai vai, quando ti accendo un cerino in bocca sulla pira funebre allora puoi andare. Bechamoni dov’è?»
«La signora è al gabinetto».
«Quando ha finito dille che faccia il bagno in fretta e mi porti subito il mazzo con tutte le chiavi. Quante stanze sono occupate?»
«Due. La numero uno e la tre».
«Arriverà altra gente. Fatti la doccia anche tu, insaponati e scrostati per bene, poi va’ a prendere l’acqua nel Gange».
«Come mai così presto?»
«Fa’ quel che ho detto, idiota! Oggi verrà aperta la stanza dei dischi! Oh Madre! Madre santa!»

Gli ammutinati di CalcuttaNabarun Bhattacharya

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Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

C’erano bambini ovunque, giocavano nell’acqua opaca dove le strade erano diventate liquide. Erano gli stessi bambini che durante l’eclissi si erano divertiti a far stare in equilibrio le uova. I più piccoli galleggiavano sull’acqua all’interno di bacinelle e secchi. Un monello con occhiali da aviatore stava sdraiato in un ampio kawah, un wok grande come un cratere che si utilizzava per i matrimoni o per cucinare il dodol. Vidi alcuni di loro cercare di stare in piedi su una porta traballante legata a un lampione. I ragazzini più grandi saltavano con una capriola dai tetti e dai rami degli alberi nell’acqua. Alcuni si appendevano ai cartelli stradali e facevano smorfie come le scimmie. Con tutte le strade sommerse da acqua fangosa, il panorama era cambiato, non si riconosceva più.
I bambini mi salutarono con la mano mentre passavo nella mia barca ridicola.
Li avvertii: «State attenti ai coccodrilli e ai serpenti. Jangan nanti kena makan buaya». Loro risero e fecero finta di essere coccodrilli, nuotandomi accanto.

Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

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Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han

Dopo la rimpatriata, durante la quale ciascuno aveva spiegato ai compagni che lavoro faceva e quale posizione ricopriva, andai da solo a fare una passeggiata nel parco per misurarlo con i passi: quarantotto in lunghezza e venti in larghezza. Era il luogo che custodiva i ricordi più teneri dell’infanzia, e io lo avevo tradotto in cifre. Mi tornò in mente un giorno: era l’ora di pranzo, il sole era accecante, io mi ero arrampicato sul punto più alto dello scivolo e da lì avevo spiccato un salto aggrappandomi all’asta della bandiera. Poi mi ero spinto ancora più su di qualche metro sull’asta, aiutandomi con la corda. Da un’altezza mai raggiunta in precedenza da altri, avevo scrutato tutta la scuola, schiaffeggiato dalla bandiera nazionale che sventolava.
L’estate era alle porte.

Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han

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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

«Come esistono persone che fanno collezione di spade o guardano solo film improponibili…», aveva provato una volta a giustificarsi, «…così esistono anche persone che si dedicano al porno: che cosa c’è di male?».
Kiyŏng non aveva potuto fare altro che limitarsi ad assecondare quell’arringa, trattenendo un commento che sarebbe suonato più o meno così: «Caro mio, è tutta questione di fascino. Se tu avessi anche una micropuntina di fascino, questo tuo vizietto non creerebbe problemi a nessuno. Difatti, da uno che ha fascino si accetta di tutto: azioni immorali, menzogne e perfino crudeltà di ogni tipo. Al contrario, nessuno potrà mai perdonare a un povero spelacchiato come te, per giunta ridotto a lavorare in un’azienda sfigata come la nostra, il vizio di essere un maniaco sessuale!».

Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha

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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

Il maestro si mise davanti al cavalletto di un’altra allieva, Ningfang, e iniziò a parlare con lei. Mentre chiacchierava con lui, Ningfang lanciò distrattamente un’occhiata verso Sixian che dipingeva nell’altro angolo, e si accorse che la stava fissando imbambolato. Incrociò il suo sguardo e lo ricambiò con un sorriso caloroso. A cosa stava pensando Sixian?
Nell’atelier c’erano sette persone: oltre a Jianxiong, al maestro e ai suoi tre allievi Sulan, Ningfang e Sixian, c’erano Zhang Wenzhong e un giovane che lo accompagnava. Si diceva che fosse un poeta appassionato anche di pittura, il quale faceva spesso copie a matita delle fotografie di scrittori uscite su libri e riviste e le pubblicava poi sui quotidiani. Aveva un atteggiamento un po’ arrogante, era la prima volta che faceva un ritratto dal vero e si aspettava di vedere una donna nuda; invece gli era toccato un ragazzetto ed era un po’ deluso. Ritrarre dal vero e copiare una fotografia però sono due cose ben diverse: il giovane poeta non aveva esperienza, dipingeva con grande energia continuando a correggere i contorni della figura ma, per quanto facesse, le proporzioni continuavano a essere sbagliate, la parte superiore continuava a essere troppo lunga e quella inferiore troppo corta. Il maestro, guardando il suo disegno, gli diede dei suggerimenti, ma il giovane si irritò: «Un dipinto non deve per forza essere somigliante. Se dipingere significasse copiare pedestremente la realtà, tanto varrebbe limitarsi a fotografare». Il maestro si accorse che il giovane era seccato e non disse più nulla.

Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon

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Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan

Non era un segreto. Tutti nel kampong sapevano che Margio rubava spesso i polli di suo padre, non perché ne avesse bisogno, ma piuttosto perché era arrabbiato con lui. «Non so cosa sia saltato in mente a quel ragazzo per azzannare il collo di una persona» replicò il Maggiore Sadrah.
La persona in questione, Anwar Sadat, in quel momento giaceva immobile sotto un batik marrone, sul pavimento del suo salotto, che era pieno di luce ma tetro per il dolore insostenibile e i singhiozzi intermittenti delle donne in lacrime. La stoffa, intrisa di rosso, seguiva i contorni del cadavere, mentre il sangue continuava a scorrere sul pavimento. Scuro e grumoso. Nessuno osava tirare la tenda che divideva il mondo dei vivi da quello del morto, perché erano consci della carne lacerata e della ferita aperta che rendevano il cadavere più macabro di qualsiasi spettro. Il semplice pensiero li disgustava.
Due poliziotti arrivarono a bordo di un’autopattuglia il cui lampeggiante rosso continuava a roteare, anche se la sirena era spenta. Si bloccarono entrambi sulla soglia, non sapendo bene che fare. La moglie della vittima aveva rifiutato qualsiasi esame del cadavere. Era giusto, visto che tutti sapevano come era deceduto quell’uomo e chi era responsabile della sua morte. Anwar Sadat non aveva bisogno di un’autopsia, e le uniche cose che gli sarebbero state garantite erano il lavaggio rituale, il riempimento della ferita con batuffoli di cotone, le preghiere e una sepoltura immediata.

Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan

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Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun

Aveva impugnato il mattarello e giù botte da orbi a Ren Baoliang. Liu Yuejin osservava quel poveraccio che si proteggeva la testa con le braccia e le prendeva senza fiatare, continuando a masticare, quando a un certo punto non ce la fece più e andò a bloccare Niu Decao: «Basta, zio, dai, in fondo è solo un pollo arrosto. Anche se continui a dargliele, non è che te lo sputa indietro».
Ren Baoliang scoppiò a piangere: «Non è per il pollo, è che sono dentro da più di due anni e non mi è mai venuto a trovare nessuno».
Quando Ren Baoliang uscì dopo aver scontato la pena, per prima cosa andò al Villaggio dei Liu a trovare Liu Yuejin e gli portò dieci polli spennati, sventrati e puliti. Trascorsi cinque anni, era diventato capomastro in un cantiere di Pechino. In quel periodo non si erano visti, ma avevano continuato a scriversi. Dopo altri cinque anni, Liu Yuejin aveva divorziato e se n’era andato da Luoshui per la rabbia. Quindi aveva cercato Ren Baoliang, che lo aveva preso a fare il cuoco nel cantiere. Se non fosse stato un suo sottoposto, sarebbero rimasti amici, ma dove c’è gerarchia non può esserci amicizia. O meglio, Ren Baoliang poteva dire di essere amico di Liu Yuejin, ma Liu Yuejing non poteva trattare Ren Baoliang come tale. Oppure potevano anche comportarsi da amici in privato, ma in pubblico tornava in ballo la gerarchia. Liu Yuejin lo aveva capito: quando erano soli lo chiamava Baoliang, se c’era qualcun altro cambiava musica e lo chiamava direttore Ren.

Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun

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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

Ho fatto una risonanza. Mi sono steso su un lettino – una sorta di bara bianca – e sono stato inghiottito dalla luce. Mi è sembrata un’esperienza ai confini della morte. Ho immaginato di librarmi nell’aria e di osservare il mio corpo dall’alto. La morte gli era proprio a fianco. Ormai era chiaro. Non mi restava molto da vivere.
Dopo una settimana mi sono sottoposto a un test sulle capacità cognitive e su qualcos’altro che non ho capito bene. Il medico mi ha posto dei quesiti a cui dovevo rispondere. Le domande erano semplici, eppure non trovavo le risposte. Mi sentivo come quando infili le mani in una vasca piena di pesci e, appena cerchi di tirarne fuori uno, quello ti sguscia tra le dita. «Chi è l’attuale Presidente della Repubblica? E in che anno siamo? Provi a ripetere tre delle parole che ha appena ascoltato. Quanto fa diciassette più cinque?» Avevo tutte le risposte sulla punta della lingua, ma non riuscivo a pronunciarne nessuna. Lo sapevo eppure non lo sapevo: Dio mio, com’era possibile?
Alla fine degli esami ho incontrato il dottore. Aveva un’espressione tutt’altro che radiosa.
«L’ippocampo si è atrofizzato», ha affermato leggendo il referto della mia risonanza. «Non ci sono dubbi: lei è affetto da Alzheimer. Non sappiamo a che stadio, però. Per capirlo dovremo tenerla sotto osservazione».
Ŭnhŭi, che mi era seduta accanto, è sprofondata in un silenzio di tomba.
«I suoi ricordi scompariranno un po’ alla volta», ha aggiunto il dottore. «Questo fenomeno riguarderà prima la memoria a breve termine e i ricordi recenti. Possiamo sempre cercare di ritardare questo processo, ma non saremo in grado di interromperlo. Per il momento la prego di prendere con regolarità le medicine che le prescrivo. Poi tenga un diario di tutto ciò che le accade e lo porti sempre con sé. Sa, è probabile che in futuro non sarà nemmeno più in grado di tornare a casa da solo».

Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha

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Gli ammutinati di Calcutta segnalato su Internazionale

L’ultimo libro di Metropoli d’Asia, Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya, ha ricevuto una segnalazione nella rubrica Libri di Internazionale.

 


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