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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Tutti i post su autori

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

È mezzanotte passata; Londra irradia film drammatici televisivi e ululati di sirene nel panorama sonoro della tarda notte. La strade sono sature di ombre e luci. Sopra Chapel Market c’è un appartamento ancora illuminato. Iona è immersa in un mare di carta. Ha aggiunto alla pila sulla scrivania altri due dizionari e un libro sui dialetti del Nord della Cina. Mentre sta smistando i fogli, cercando di dar loro un senso, trova una lettera senza data.
A un primo colpo d’occhio pensa che sia una lettera degli anni Novanta, ma il tono è arrabbiato e ferito come nelle prime lettere che Jian sembra aver mandato a Mu dopo aver lasciato la Cina nel 2011. Sta lavorando su queste traduzioni da alcune settimane e non è ancora riuscita a dare un senso alla storia. Che cosa è andato storto nel loro rapporto? Sembravano così felici, così pieni di promesse ed entusiasmo. Ci sono indizi e allusioni a un manifesto che ha cambiato tutto, ma non dispone di alcuna informazione del contesto e le sue ricerche su internet si rivelano inutili.
Guarda ancora la lettera – il tono è piuttosto veemente. Iona si chiede se sia mai stata spedita. Nessun indirizzo, nessun sentimentalismo, solo franchezza.

Da La Cina sono io, di Xiaolu Guo

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Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xiaolu Guo

Quando ho lasciato il mio villaggio, è stato come aver fatto un passo con il piede destro e aver impiegato quattro anni per farlo raggiungere dal sinistro. Durante quei quattro anni sono stata una specie di sedia di riserva abbandonata nell’angolo buio di un magazzino. Il mio primo lavoro a Pechino è stato come inserviente in un albergo chiamato Ostello del popolo. Non ero autorizzata a pulire le stanze, soltanto i corridoi e i cessi, ma se non altro potevo dividere una camera da letto con altre quattro inservienti. Sono rimasta lì per circa un anno, ma alla fine ho mollato. Poi ho lavorato in una fabbrica statale di giocattoli che produceva pistole di plastica e aeroplanini. Eravamo grosso modo cinquemila operaie, non sopportavo il rumore e la puzza del dormitorio e perciò ho lasciato anche quel lavoro. Da allora, ho praticamente vagato da un lavoro all’altro. Ho trascorso qualche mese in una fabbrica di lattine monitorando le macchine di assemblaggio, quando a un certo punto sono approdata in un vecchio cinema fatiscente chia-mato I Giovani Pionieri. A dispetto del nome, non proiettava pellicole in stile giovani pionieri ma soltanto film hongkonghesi di arti marziali. Monaci che se le danno e cose del gene-re. Dopo ogni proiezione dovevo spazzare scorze di canna da zucchero, ali di pollo smangiucchiate, gusci di arachidi, bucce di melone e altra merda che la gente si lasciava dietro – a volte perfino rane fritte.
Quel lavoro però non mi dispiaceva. Dormivo su un di-vano sgangherato nella sala proiezioni e guardavo film tutto il giorno. Inoltre, potevo tenermi le cose dimenticate dagli spettatori sotto i sedili. Una volta ho trovato un dizionario di inglese. È stata una scoperta elettrizzante. C’era quel famoso liceale di Shanghai che era stato ammesso a Harvard dopo aver imparato a memoria l’intero dizionario di inglese. Non riuscivo a farmi venire in mente il nome, ma era diventato il nostro eroe nazionale. Immaginavo che avrei potuto fare come lui – che quel dizionario dimenticato sarebbe potuto diventare un passaporto per il mondo anche per me. Ad ogni modo, ho incominciato a studiare le parole. Non era difficilissimo, ma dopo un po’ mi sono stufata e ho smesso. Comunque, riuscivo a dire qualche parola agli stranieri che venivano al cinema. E pensavo che vivere in un cinema fosse una figata. Spendevo tutti i miei risparmi per comprare riviste di film e andavo in altri cinema per vedere le ultime novità.

Da 20 frammenti di gioventù vorace, di Xialu Guo

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Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry

A Jingo sfuggivano le date esatte, ma gli avvenimenti descritti dalla donna risalivano ad almeno dieci anni prima della sua nascita. Nel porto era esplosa una nave inglese carica di dinamite. Oltre a varie merci, tra cui barili di petrolio e balle di cotone, l’imbarcazione trasportava anche un grosso quantitativo d’oro. I lingotti erano volati lontano, in mezzo all’aria colma di fumo nero, anche se la maggior parte, a quanto si diceva, si era fusa ed era finita in fondo al mare. Molti tra pompieri e passanti avevano perso la vita nella grande esplosione o erano stati dati per dispersi. Decine di corpi non erano mai stati ritrovati. Jingo l’aveva letto di recente su una rivista, in un articolo che commemorava – che cos’era? – forse il quarantacinquesimo anniversario di quello scoppio?
«Ho smesso di accendere il cero, ho smesso di pregare che tornasse. Non m’importava più se era vivo o morto. Ma quando se n’è andato, è successo qualcosa di più tremendo, molto di più… e di questo do la colpa a lui…».
D’improvviso Jilla Gorimar strizzò gli occhi e scivolò giù dal letto con un dito sulle labbra, per intimare a Jingo di fare silenzio. «Shhh. Eccolo… eccolo lì… lo vedi? Tieni, prendi questa». Gli diede la scarpina rossa da bambino che era sul tavolo e sussurrò: «Schiaccialo!». Indicò un topo grigio e corpulento che attraversava la stanza come se niente fosse. Non appena Jingo si mosse per prendere la scarpa, la bestia scomparve in un lampo, nascondendosi dietro i mobili.
«È sparito», disse Jingo con disappunto simulato, mentre in realtà provava un certo sollievo.
«Ah, fa niente. Ce ne sono a centinaia. Anche più grossi. Vanno e vengono».

Da Le ceneri di Bombay, di Cyrus Mistry

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Da dollari la mia passione, di Zhu Wen

«Visto che non abbiamo ancora deciso, perché cammini così in fretta?»
«Perché anche andare a zonzo così è un piacere. Ma adesso dimmi, dove si va?».
Non lo so nemmeno io dove convenga andare. Trascino mio padre a un chiosco di bibite e compro due lattine di Coca in due bicchieri di carta. Illuminata dal sole, la sua faccia è il ritratto della salute, sembra sprizzare radiosità da tutti i pori. È un po’ sudato, i capelli appiccicaticci hanno perso la fluente eleganza di prima. E se adesso cominciasse a scendergli un rivoletto nero sulla fronte? Oddio, fa’ che non succeda, per favore! La mamma ti ha detto di comprarle qualcosa?, gli chiedo. No, non sa neppure che sono venuto qui, risponde lui. Allora sei libero come me? Certo, siamo un uomo in compagnia di un altro uomo, che cosa facciamo? Ovvio che dovremmo fare cose da uomini. Ma è pomeriggio, il sole è ancora alto nel cielo. E che importa? Con due soldi in tasca la notte può anche arrivare in anticipo. Ci accovacciamo sul gradino del marciapiede con i nostri due bicchieri di Coca in mano. Continuiamo ad alzare la testa e a guardarci senza parlare, in un tacito dialogo ininterrotto. Dovrei sapere di che cosa ha bisogno mio padre, questo ci si aspetta da un figlio che sia un figlio. Se in futuro mi trovassi anch’io ad avere un momento di libertà e infischiandomene del ruolo conferitomi dall’età facessi una capatina da mio figlio, preferirei che avesse una qualche idea su come procurare attimi di piacere al suo provato padre, non che se ne stesse lì a mostrarmi rispetto formale come un idiota. Dammi retta, figliolo, il rispetto è una cosa troppo astratta. Invece dobbiamo imitare il romanticismo del dollaro americano, la forza dello yen giapponese, l’equilibrato ottimismo del franco svizzero: sono questi i valori veri, concreti, che dovremmo imparare.

Da Dollari la mia passione, di Zhu Wen

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Da Le donne di Saman, di Ayu Utami

Dopo aver mangiato ognuno di loro tornò al proprio lavoro. Laila andò in giro alla ricerca di angolazioni particolari per uno scatto perfetto o comunque capace di rendere la durezza del lavoro sull’impianto. Ma non poteva impedire ai suoi occhi di muoversi spasmodicamente per cercare Sihar. Lo individuarono al lavoro di fronte a un container. Non era solo, era insieme al suo apprendista. Stavano tentando di equilibrare la pressione altalenante dei cavi di ferro che andavano dalla finestrella del container fino al pozzo di estrazione.
Sopra la piattaforma gli operai, con indosso tute infangate ed elmetti di protezione tutti uguali, andavano avanti e indietro, come se l’impianto fosse un palcoscenico e loro fossero parte della rappresentazione. Laila li fotografò al lavoro.
«Queste foto non sono per le campagne di solidarietà per i lavoratori, vero?», le si rivolse Rosano con quel suo modo di fare: cordiale, dolce e insieme arrogante. Solo in seguito, Laila sarebbe venuta a sapere da Sihar che Rosano era figlio di un pezzo grosso del ministero delle Risorse Minerarie ed Energetiche. «La Texcoil gli ha pagato gli studi in America e gli ha dato questo lavoro a condizione che suo padre appianasse la concessione degli impianti petroliferi a Natuna», le spiegò Sihar. Ma Laila non sapeva se le raccontasse tutte quelle cose solo per schernire Rosano. Non riusciva più a essere obiettiva. E tutto sommato la cosa non le importava più di tanto.

Da Le donne di Saman, di Ayu Utami

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Da E adesso?, di A Yi

Quando si accorgerà che ho svuotato la cassaforte, la zia caccerà un urlo e andrà su tutte le furie; se si dispera, tanto meglio. Se lo merita. Io e i miei non dobbiamo niente allo zio, sono venuto a stare nel capoluogo della provincia grazie a uno scambio di favori, tra i più importanti nella storia del-la famiglia. Quando era ragazzo, mio padre, nonostante fosse più bravo a scuola, aveva lasciato che fosse suo fratello a studiare e lo aveva mantenuto all’università lavorando in miniera, dove poi si era beccato un cancro ai polmoni. Eppure la zia, che prima era una mediocrissima bigliettaia di autobus, è con-vinta che siamo in debito con lei, soltanto perché è nata in città. Quando mi aveva accompagnato a casa loro, mia madre aveva portato in regalo alcuni prodotti locali, che la zia aveva rifiutato con spocchia: «Tienili tu, tienili tu, che non ve la passate bene». «Mia mamma ha molti più soldi di te!» avrei voluto gridare. A quell’epoca avrei preferito suicidarmi, tanto ero a disagio, e me ne stavo tutto il giorno rannicchiato nella veranda. Se facevo la doccia, lei spegneva il gas, e le rare volte che guardavo la tivù, lei camminava avanti e indietro sui suoi tacchi alti. Non mi proibiva di sedermi sul divano, però spolverava appena mi alzavo e, alla minima impronta sul pavimento, passava il mocio, con il gusto con cui un vecchio contadino raccoglie sterco di vacca per concimare.

Da E adesso?, di A Yi

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Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

Mentre Shishir e io salivamo i gradini in stile catacomba sentii uno strano profumo nell’aria. Era così in contrasto con quello che avevo visto al piano terra – fogne a cielo aperto, pavimenti bagnati, isole di spazzatura, soffitti neri di fuliggine e roditori iperattivi – che mi sembrava di entrare in uno di quei mondi artificiali concepiti per stimolare i sensi e tenerli in forma.
Era tutto bagnato, e in più pioveva forte. Shishir era già fradicio. Io ero riuscito in qualche modo, con balzi e saltelli e acrobazie varie, a trovare quasi sempre un riparo, quindi non ero da strizzare.
«Sei riuscito a mettere in salvo la scatola delle sigarette?», chiese Shishir mentre raggiungevamo un altro pianerottolo e ci fermavamo prima di continuare a salire. Un tizio magro, in canottiera e occhiali spessi, venne verso di noi tenendo in equilibrio un grosso vassoio di metallo ricoperto di piatti coperti da altri piatti e un bicchiere d’acqua.

Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

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Segnalazioni per Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya

Gli articoli sulla stampa e sul Web che hanno parlato di Gli ammutinati di Calcutta, di Nabarun Bhattacharya. Il post è in aggiornamento.

China Files (dicembre 2016)

il manifesto  / China Files (novembre 2016)

Corriere della Sera (novembre 2016)

Feedbooks (ottobre 2016)

Chicchi di pensieri (ottobre 2016)

Bookmarks are reader’s best friends (ottobre 2016)

Internazionale (ottobre 2016)

Chicchi di pensieri (ottobre 2016)

Il Blog di Pupottina (settembre 2016)

Il Mattino (settembre 2016)

Il Messaggero (settembre 2016)

 

 

 


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Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag

Mangiamo finché c’è luce. Durante queste cene mi riferiscono le notizie che hanno sentito alla radio o i pettegolezzi locali. Aspetto con ansia questi incontri quotidiani. Per fortuna, nonostante nessuno di loro tocchi alcolici, non sono infastiditi dal fatto che io mi porti il mio bicchiere di whisky. Normalmente ci separiamo subito dopo aver finito di mangiare. A volte però uno di loro inizia a parlare, ricordando eventi di prima dell’arrivo dell’inondazione, come se sentissero il bisogno di restare legati a un passato che sta scomparendo. Li ho già sentiti quasi tutti, ma mi stupisce il modo in cui riescono a continuare ad aggiungere particolari ai loro ricordi. Mi accorgo sempre di più che le loro storie irrompono nella mia mente e si mescolano con le mie reminescenze delle cose successe, di quelle che sarebbero potute succedere e di altre scivolate fuori da tempi remoti. Così l’acqua dissolve i confini tra le nostre realtà separate. Trasportate dalla stessa corrente, le nostre esperienze stanno iniziando a fondersi in una massa informe.

Da Cortina di pioggia, di Tew Bunnag

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Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

Prima di arrivare in questa città, non sapeva bene cosa aspettarsi. Forse nutriva una speranza ingenua che la città le cadesse ai piedi, spalancandosi come uno scrigno di gioielli e lasciando rotolare fuori tutti i suoi tesori, mentre resta ostinatamente e impenetrabilmente chiusa di fronte a lei. Le lunghe ore in laboratorio le lasciano poche occasioni per socializzare; la cosa più simile a un amico che abbia è il signor He.
Il suo anonimato in città è al tempo stesso liberatorio e demoralizzante. Alla sera, dopo il lavoro, ha preso l’abitudine di girare per la città, guardare le vetrine, osservare le persone, contemplare la vita delle strade come se fosse un suo diorama privato. La città non è una delle grandi metropoli, non ancora, almeno; è una arrivista sfacciata, che abbatte e ricostruisce tutto quanto c’è in vista, freneticamente, l’aria stessa elettrizzata e carica di promesse sfuggenti, come doveva essere stata New York agli albori del ventesimo secolo, una città pulsante avviata verso un’ambizione di grandezza. In città, Ling coglie qualche ombra, qualche indizio di una vita che per lei rasenta la fantasia, tanto è distante dal mondo in cui abita. Intorno alla circonvallazione principale della città c’è un agglomerato di alberghi a cinque stelle. La sera un flusso ininterrotto di auto di lusso scarica uomini in completi su misura e donne che indossano abiti luccicanti con varie gradazioni di trasparenze. Lei osserva soprattutto le donne, il modo in cui emergono dai veicoli, un tacco a spillo alla volta, sondando esitanti il terreno prima di allontanarsi volteggiando in una nuvola di seta o jacquard e di un profumo così intenso da permetterle di sentirlo anche a quella distanza. Le guarda e pensa: Potrei essere io, quella.

Da La ragazza del karaoke, di Claire Tham

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