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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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L’India dei conflitti

Venerdì scorso Internazionale ha tradotto e pubblicato un lungo articolo di Arundhati Roy da Outlook India, sull’India dei conflitti: da un lato le cinquanta famiglie più ricche del paese, dall’altro mezzo miliardo e passa di contadini poveri e abitanti degli slum, che dello sviluppo economico impetuoso beneficiano poco assai, divenendo invece le vittime delle frequenti espulsioni di massa, naturalmente senza indennizzi, da terreni che poi verranno sfruttati per l’estrazione mineraria o per la costruzione di impianti industriali: ed è vero, sì, che tutto ciò produce posti di lavoro e salari, ma sempre a lungo termine.

Insomma, non è certo che lo sviluppo vada a benificio dei ceti più poveri, di sicuro non in quest’India ostaggio delle oligarchie economiche. A parte l’utilizzo a piene mani del vocabolo “capitalismo” (che a me pare come se tutte le volte si ricordasse che gli umani respirano) la critica coglie nel segno.

E allora consiglio la lettura del suo ultimo libro (In marcia con i ribelli), uscito con Guanda: rispetto al nostro I miei luoghi di Annie Zaidi, i libri della Roy sono più sistematici, mentre Annie Zaidi resta magistralmente piu’ vicina all’oggetto del suo sguardo: dove la Roy spiega, la Zaidi splendidamente racconta, e ciascuno scelga a seconda delle sue preferenze, perché poi l’oggetto della ricerca è sempre lo stesso.

Una cosa mi piace segnalare dell’articolo di Arundhati Roy: anche lei sostiene che le polemiche sollevate attorno al Festival di Jaipur per il boicottaggio a Rushdie hanno avuto solo l’effetto di sottrarre l’attenzione del pubblico dai temi reali che al Festival si andavano trattando: l’India dei conflitti, appunto. E la polemica di Arundhati ha un bersaglio: molta della cultura indiana, e il Festival di Jaipur tra tutti, è vastamente sponsorizzata dai megagruppi indistriali indiani. A Jaipur perfino l’ufficio stampa del Festival aveva uno sponsor di tal fatta…

Insomma: agli amici che avevano criticato certi miei post da Jaipur, e molti tweet, nei quali io dicevo lo stesso (parliamo dell India, e non di Rushdie!) adesso posso dire: visto? Non sono il solo a pensarla cosi. Insomma: mi sento meglio.

A tutti dico: leggetevi Tehelka, che e sempre online: è cosi si che si capisce l’India.

Foto: Satish Krishnamurthy

Annie Zaidi sulla rivista del Touring

Touring di questo mese segnala I miei luoghi, di Annie Zaidi.

Han Han su GQ

Un lungo approfondimento del mensile GQ su Han Han, nel quale si parla della sua vita e dei suoi rapporti con il potere, e si cita ovviamente anche Le tre porte, uscito con Metropoli d’Asia pochi mesi fa.

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Art Studio premiato, aspettando la versione italiana

La rivista Asia Weekly di Hong Kong ha inserito Art Studio, del singaporeano Yeng Pway Ngon, tra i migliori dieci romanzi in cinese del 2011. Il libro uscirà a inizio 2013 con Metropoli d’Asia, che ne detiene i diritti mondiali. Qui sotto un ritaglio dallo Straits Times, giornale di Singapore che parla del libro.

 

In Cina, tra letteratura e cinema

Caratteri Cinesi traduce il resoconto di un incontro avvenuto nel corso del Bookworm Festival tra il regista e scrittore Zhu Wen (Dollari la mia passione e Se non è amore vero, allora è spazzatura con Metropoli d’Asia) e lo scrittore e blogger Murong Xuecun.

Si è parlato di cinema, in particolare in rapporto alla letteratura, con un passaggio dedicato anche al rapporto tra romanzo e sceneggiatura, dove è stato proposto un interessente paragone con il tema delle traduzioni:

Si può avere quella letteraria, quella di significato e quella dello spirito. Tra un libro e una sceneggiatura deve passare lo spirito del lavoro iniziale.

Diverso l’approccio dei due autori sulla censura (una curiosità: in Cina sono vietati i film con i fantasmi), tema che è stato anche toccato durante le conferenza. Zhu Wen afferma di non curarsene molto, mentre Murong Xuecum ammette un’autocensura per condividere il suo lavoro con il pubblico cinese.

Errare

L’editore errante incontra. E’ questo il bello del mestiere.

Oggi, in tour nel Sud Est asiatico, mi trovavo in una stanza spoglia, seduti in quattro attorno ai tavolini di ferro nel retro di una libreria indipendente di Kuala Lumpur: Silverfish Books, di Raman Krishnan, che oramai conosco da anni: ogni volta lo passo a trovare e lui ascolta paziente la mia storia, ma non abbiamo mai trovato il modo di collaborare. Raman ha costruito attorno alla sua libreria una piccola casa editrice che riesce a pubblicare ottima narrativa e saggistica in lingua inglese: mi dice che è il suo ‘progetto politico’ che è affermazione abbastanza inusuale da queste parti, anche se è forse solo una traduzione ambigua: politics, cosa davvero si intende? Ma è chiaro che per lui, di origine indiana, è il modo per coltivare una battaglia culturale contro l’imperare di un islam invadente anche se non oppressivo: e la lingua inglese lo situa in un ambito di autonomia intellettuale.

Oggi Raman faceva da chaperon a un incontro con due editor locali che mi presentavano il loro progetto: Linda Lingard e Dayaneetha Da Silva intendono lanciare una casa editrice che traduca dalle lingue locali del sud est asiatico: in inglese, ovviamente. Bel progetto, vuol dire dare aria a una narrativa che altrimenti resta confinata nel Sud Est. Ma quanto costa farlo? A chi la vendi? Linda e Dayan apparivano impreparate.

E quindi ecco apparecchiata una conversazione a largo raggio che spazia dalla narrativa bengali all’e-book, e queste persone mi erano estremamente simpatiche, Linda clumsy, cinese che va all’ingrasso, facilmente imbarazzabile, Raman come sempre un po’ in difesa dietro a frasi altisonanti (modello, struttura di costi) e a qualche affermazione messa giù solo per dimostrare una conoscenza enciclopedica dell’editoria asiatica, ma intelligente e appassionato, capace di scovare talenti che ora tenterà di imporre al mercato europeo, e vedremo.

E Dayan (più tardi mi ha accompagnato a prendere un taxi e mi ha detto: io sono stata invitata da Linda a questa riunione, sapevo grosso modo chi sei tu, ma non ho capito per niente il ruolo di Raman: io le ho risposto: se conosco bene Linda, ha sempre bisogno di farsi accompagnare da qualcuno che la rassicuri). Dayan, direi, è editor di origine indiana, qualche capello bianco come un aureola attorno al viso, anche lei bella larga di fianchi ma giovanile nello sguardo, vispa, acuta.

Ma che stavo a dire? Ah sì l’editore. In realtà quel che mi premeva qui ricordare è il primo incontro in assoluto, nel corso del mio errare (che humanum est, sì, ma l’etimo che mette insieme lo spostamento nello spazio e l’errore va indagato). Dalla lista di un gruppo di amici di Bombay, un nome e un numero di telefono: Meher Pestonji. A casa sua, la bella e cupa casa di Colaba, dentro a una stanzetta dove c’è il suo computer, e soprattutto il suo brandy. Lei versava, versava, parlava di ‘social work’ (io di microcredito) e di un paio di romanzi suoi (io dei ‘narrative non fiction’ miei). Di bicchiere in bicchiere io pensavo: bel mestiere, l’editore errante!

Al di là dei giochi e delle sbronze, nel corso del tempo che mi ha portato in quattro anni da una scrittrice a un gruppo di publishers, da Bombay a Kuala Lumpur, a me è restato in mano una sorta di album delle figurine. Quelli che incontro non solo sono artisti e operatori culturali di civiltà lontane nello spazio (anche se sempre più contigue a noi nelle forme). Sono purissimi esponenti di una middle class asiatica che sta oggi imponendosi al mondo: perché consuma, perché fa attività economica che cresce, perché distilla comportamenti e visioni del proprio mondo che a me piace confrontare con il mio. Un Altro, insomma. Ma un Altro non dissimile da me, di cui mi affascina questo ripartir da zero: cosa sono le metropoli asiatiche se non un mondo nostro, di ceto medio (piccola borghesia, si diceva una volta), consueto, eppure desueto perché loro alle spalle hanno poco, si vedono questo futuro nuovo di zecca davanti agli occhi e possono ancora ragionare su come strutturarlo, decidere cosa farci, lì dentro. Gli piace? Non gli piace? Cosa gli pare giusto e cosa sbagliato?

Due pensierini finali.

1. Mi pare si chiamasse Claudio Lolli il cantautore italiano che scrisse questi interessanti versetti: Vecchia piccola borghesia / per piccina che tu sia / non so dire se fai più rabbia / pena, schifo, o malinconia. Ecco: la piccola borghesia asiatica no, non fa né schifo né malinconia: anzi!

2. Dal Dizionario Italiano Ragionato G.D’Anna – Sintesi, Firenze 1988 (molto pre-twitter): errare v. intr. Nell’accez. orig. Andare senza una meta precisa. Vagare (…). Viaggiare senza una meta. / Dall’idea del vagare deriva il signif. di Sbagliare, Incorrere in errore. Allontanarsi dal vero (essendo l’idea dell’errore connessa a quella dello smarrimento della giusta strada).

Perseverare diabolicum.

Annie Zaidi su Il Foglio

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L’8 marzo di Annie Zaidi, su China Files

Ieri China Files ha realizzato uno specialone per la Giornata internazionale della donna (aka Festa della donna). Si intitola Altre donne e raccoglia una serie di storie legate a diversi paesi dell’Asia.

Per quanto riguarda l’India, è stata proposta una lunga intervista ad Annie Zaidi nella quale sono stati toccati diversi temi legati alla situazione delle donne nel paese. Inoltre, è stato pubblicato un estratto da I miei luoghi, il reportage di Annie Zaidi appena pubblicato da Metropoli d’Asia.

D: Le donne in India subiscono quotidianamente discriminazioni e molestie, anche nella vita di tutti i giorni. Pensi che, nonostante tutte le differenze di casta, religione, ricchezza e status sociale, esista un tratto comune in grado di unire tutte le donne in India nella loro condizione? Pensi che ci sia un terreno comune dove tutte le donne indiane sentono di far parte di un gruppo specifico?

R: Questa è una domanda difficile. Credo che l’identità nazionale (così per come ladefiniamo) sia un concetto poco compreso, specialmente quando le persone sono divise e si dividono ancora in base a caste, religioni, classi sociali e così via. Se chiedi a una donna tribale illettarata che vive in un’area remota cosa significa essere una donna indiana, cosa risponderà? Lei a malapena sente la presenza dello stato indiano, a meno che non abbia beneficiato di particolari programmi statali, o altro, oppure può esser stata traumatizzata da altre forze che possono essere statali o meno, ma che lei comunque qualifica come “indiani”.

Oltretutto, moralità, norme sessuali, matrimonio e aspettative lavorative differiscono da una comunità all’altra.
Ci sono molte somiglianze, naturalmente. Una larga gamma di classi e caste sono aggrovigliate in quello che possiamo chiamare ‘mainstream’, la corrente tradizionale. Condividono i valori e i problemi che chiamiamo “indiani”. Ma fino a poco tempo fa c’era una grande diversità e, anche ora, le cose sono in continuo mutamento.

(Continua a leggere su China Files)

Local Economy

Li ho incontrati insieme alla Fiera del Libro di Calcutta, davanti al padiglione degli incontri con gli autori naturalmente, e le somiglianze tra i due mi sono saltate all’occhio. Giovani, ruspanti (termine inusuale? A me piace, mi pare designi persone o situazioni o testi o sonorità o immagini che non perdono il contatto con la nuda terra, con la grana dura dell’asfalto. Il suo opposto potrebbe essere: raffinato, letterario, snob, salottiero, evanescente, effimero). Al punto da mettere a dura prova il mio inglese, da loro storpiato gergalmente, e come sempre inframmezzato da termini hindi, masticato dentro alle loro bocche. Di Sarnath Banerjee recentemente ho detto: Sarnath bofonchia. Come una pentola in perenne ebollizione, con un coperchio che le balla sopra e rimanda sbuffi e clangori. Indrajit Hazra no, lui pronuncia le sue frasi con voce stentorea, alza la voce quando occorre, ma il suo vocabolario è un tunnel scavato nella roccia viva, con le pareti graffiate da rostri meccanici, un po’ reminescenze di passate epoche aliene, un po’ modernità barocca.
Hazra ha una rubrica sull’Hindustan Times e lì si occupa di tutto, dal calcio a Bob Dylan, dai senza casta ai politici glamour. Politicamente scorretto quel che basta a regalarci zaffate di verità purissima su un India talmente vasta e complessa da non poter essere ridotta entro alcuno schema precostituito, entro il già detto.
Banerjee è artista visuale riconosciuto, esposto in Europa (anche al Maxxi di Roma), in cerca di una sistemazione semipermanente a Berlino, ben insediato a Londra (mentre Hazra, non so dire perché, in una nostra città ce lo vedo poco), ma indiano fin nel midollo, per nulla anglo-eccetera, a suo agio nella confusione e nella puzza della nativa Calcutta come nel bel mondo dei vernissage di Delhi.
Hazra lo incontri a volte sfranto da buon vino rosso (o cattivo vino rosso indiano). Banerjee ricorda più un nostro artista off da centro sociale, avvezzo ad altri usi e consumi.
Bibliografia: di Hazra il nostro Il Giardino delle Delizie Terrene, ma anche un Bioscope ambientato nella Calcutta dei tempi d’oro del cinema indiano (ruspante), svolto attorno al proiettore 36 o 72 pronto a andare a fuoco appena possibile – come nel Giardino: che finisce con uno dei due protagonisti che da fuoco alla Fiera del Libro di Calcutta (ehi Indrajit, sei qui a dar fuoco al padiglione? Si guarda intorno preoccupato: well, non nominare quel romanzo). Il piromane cominciava la sua carriera lasciando andare a fuoco la casa con la fidanzata dentro…
Di Sarnath Banerjee, graphic novelist, c’è un buon The Corridor (da me inseguito invano perché appariva venduto a un ignoto editore italiano di cui nulla poi si è saputo), storia di un graphic novelist e della sua Delhi (paradossalmente molto milanese, gli dissi una volta), e poi the Barne’s Owl, bellissimo nella scelta di inserire entro al disegno foto vive di Calcutta, che ci appare così in tutto il suo fatiscente splendore, ma poi costruito su una linea narrativa tutta dentro a un passato di battaglie e cavalieri, elmi e spadoni. L’ultimo Harappa Files è una collezione di pezzi brevi o vignette singole: se avete voglia di immergervi nei temi politico sociali trattati quotidianamente dal gossip mediatico indiano, accomodatevi: è perfetto.
In diretta differita, la seguente scena.
Sarnath (Dopo avermi salutato con l’abituale: Andrea, tu sei una spia di qualche servizio segreto, MI5, Mossad. Dove vado nel mondo, Londra, Ferrara, Kolkata, Delhi, arriva Andrea) (E quando dimostro di avere notizie dei suoi spostamenti recenti mi fa: tu mi sembri Lord Shiva, onnisciente e onnipresente): Indrajit tu conosci Andrea?
Andrea: certo, gli ho pubblicato il Giardino.
E Sarnath gli salta addosso: oh, sono entrati un po’ di soldi allora?
Indrajit: beh sai, l’economia italiana è in crisi, Andrea mi ha chiesto una prestazione gratuita.
Sarnath: ah, e l’economia globale va meglio?
Indrajit: recessione.
Sarnath: e l’economia locale? (E mentre Indrajit si gira a parlare con qualcun altro rilancia la domanda: and what about local economy? And what about local economy?).
Sono i nuovi intellettuali indiani. Trenta-quarantenni, circondati da riferimenti globali e occidentalizzati, ma immersi dentro a un humus indiano che è il loro cortile, background perchè backyard (giardino?), questa polvere che non te la stacchi di dosso nemmeno alle mostre dei vari British Institute perché impregnata di delizie terrene a cui non hanno alcuna intenzione di rinunciare. Non sono mica matti.

Dir di no

Com’è difficile dir di no.

Quando decisi di saltare il fosso, e da scrittore trasformarmi in editore, ero solito dire: son passato dall’altra parte della barricata. La parte comoda, dove tieni il bastone del comando.

Ora, al di là dei molti oneri e dei pochi onori del mestiere di editore (sia esso in partnership con una possente macchina editoriale che ti chiude nel Castello Kafkiano, dove non tu non sai mai chi ha preso la decisione o non decisione sbagliata, e dove ti hanno nascosto il bandolo di una matassa che sempre più ingarbugliano a dovere; o sia esso l’editore indipendente, che a sua volta dipende da uno stuolo di fornitori e collaboratori che giustamente ti tirano per la giacca sette volte al giorno, e il dettaglio di cui ti stai occupando in quei sette minuti è ben lungi dal contenere in sé il mondo ma anzi, moltiplicato per cento costruisce un mosaico rococò di punte degli iceberg, e tu non hai mai il tempo di vederne i sei settimi che stanno sotto), la presunta comodità da Deus ex Machina si infrange davanti al manoscritto di un autore (puoi quasi definirlo un amico) che non ti pare all’altezza.

E allora?

“I am pained”, mi rispose Raj Rao alla mail nella quale gli comunicavo che non avrei pubblicato né preso i diritti da agente di un suo romanzo. Non ne rivelo il titolo, perché Raj sta ancora cercando di piazzarlo, e spero davvero trovi un editore in India. Ma “I am pained”, colpisce me come un cazzotto allo stomaco. Io non voglio addolorare nessuno, non mi piace questa responsabilità.

Mi metto in salvo dunque ricordando i tempi in cui mi trovavo dall’altra parte della barricata. Una volta, dopo un anno di attesa e un lavoro di cesello a fianco di un editor importante, il giudizio finale sui miei racconti fu: “acqua fresca”. L’editor, cercando di consolarmi, disse: che poi non capisco perché acqua fresca vada inteso negativamente.

I racconti furono in seguito accolti (eh già: di accoglienza si tratta, dal punto di vista dello scrittore) da un editore meno importante, e la festa per il loro arrivo nelle librerie fu calorosa e partecipata. Anni dopo un (pessimo, lo ammetto) tentativo di romanzo giallo fu stroncato da un “ci ha molto deluso” (e certo: grazie per le aspettative).

Il giallo comunque fu giudicato troppo allineato a uno stile da serial televisivo, dove invece che sprazzi di realtà si mostrano stereotipi, cliché, luoghi comuni: quanto di peggio, insomma (e inutile stare a raccontare che il mio intento ben altro era da quello: non sono riuscito nel mio intento, quindi zitto e mosca). (NB: una delle due risposte negative mi arrivò un venerdì 13, e qui chi più ne ha più ne metta, perché l’autore rifiutato sa inventarne di ogni).

È invece un venerdì 20, al Jaipur Literary Festival, quando ricevo la chiamata di Raj. Faccio qualche passo nella direzione indicata, mi giro tre volte su me stesso dicendo dove sei, fino a sentir la frase nel cellulare: ti sto guardando.

Raj mi guardava con un espressione torva, perfino spaventata: in ogni caso pained. Ci siamo seduti su due sedie nel prato, circondati da una marea di gente, mentre il suo accompagnatore dopo avermi stretto la mano si accovacciava sull’erba dandomi la schiena. A dirla tutta, Raj quasi non parlava, dovevo tirargli fuori frasi smozzicate.

Capivo che ogni mio atteggiamento rischiava di ferirlo, sentivo la nevrosi nella sua domanda: perché ieri non mi hai chiamato? Avevamo deciso di andare insieme a un party editoriale, ma io ero arrivato tardi a Jaipur e non mi ero fatto sentire. Immaginavo che lui immaginasse che io avessi volutamente evitato di farmi vedere insieme a lui: immaginare è certo prerogativa degli scrittori e degli editori-scrittori, e quindi occhio: a volte bisogna saper mollare la presa.

In ogni caso nei giorni successivi lo ho calorosamente salutato tutte le volte che lo incontravo: mi facevo un punto d’onore di farmi vedere a chiacchierare con lui. Perché la sua, di nevrosi, da scrittore omosessuale e attivista, e accademico che con fatica ha di recente visto riconosciuti i propri diritti in quanto a carriera e posizioni di prestigio, è una nevrosi argomentata, e insomma Raj non ha tutti i torti.

Il suo editor di riferimento in India, colui che aveva gli ha pubblicato i primi tre libri, ha recentemente cambiato posizione. E: “lo sai, l’editoria indiana è piena di donne”. In effetti il suo romanzo ha una donna tra i protagonisti del triangolo amoroso complicato, etero e omo. Troppo luogo comune, troppo cliché. Ma sono d’accordo con Raj: anche la reazione negativa delle pur bravissime donne dell’industria editoriale indiana è improntata a un cliché: le donne che in India faticano a imporre la loro indipendenza, a guadagnarsi il rispetto, rispondono poi a ogni visione critica con un riflesso da politically correct. Cliché contro cliché.

Che dire? L’ho fatto, ho rifiutato il manoscritto. Gli ho anche dato dei consigli, ho capito l’intenzione, ho criticato il risultato. Gli ho augurato di trovare un editore indiano. Gli ho raccontato qualche balla di troppo sul mercato librario italiano. Ho anche provato a girarla dal lato giusto: spiegando per bene cosa intendevo (me lo son riletto due volte nei giorni precedenti all’incontro di Jaipur). Gli ho fatto vedere dove e quando: Raj non era d’accordo, naturalmente.

Ecco che ho fatto, alla fin della fiera: ho scritto questo post, e invece di chiamarlo per nome e cognome, ecco apparire Raj. Raj di qua, Raj di la. Io sono tuo amico. Raj…

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