I due uomini tornarono a bordo della mia barca improvvisata dopo una “ricognizione”, come la chiamavano loro. Avevo costruito l’imbarcazione con alcuni fusti per sostanze chimiche tagliati nel senso della lunghezza: tre metà unite con un cordino di nylon preso dai fili per il bucato di Beevi. Inoltre comprendeva uno scafo e una copertura fatta con alcuni rami e un vecchio ombrello a pois. Devan la manovrava con racchette da ping-pong inchiodate su manici di scopa.
La barca poteva trasportare due adulti di corporatura minuta. Leong era basso ma corpulento e temevo che l’imbarcazione non reggesse il suo peso. Con lui a bordo affondava di altri venti centimetri, ma resisteva e mi congratulai con me stesso per aver saputo realizzare una pseudoimbarcazione che galleggiava così bene.
Leong scese dalla barca e salì sulla veranda della casa di Beevi, con i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia e la maglietta fradicia che intrappolava una sacca d’aria tra la pancia e il petto.
Gridò: «Salve salve, buongiorno buongiorno», per comunicare la sua presenza. Aggiunse: «Ho buone notizie per voi, gente. Abbiamo due cataste di assi di legno, larghe dieci centimetri e lunghe quindici. In tutto sono circa trecento».
«Quanto ci vorrà?» chiese Shan.
«Un giorno, credo. Ecco il piano: costruiremo partendo dalla casa qui dietro», indicò con il pollice, «fino a questa cucina. Poi continueremo da questa veranda diritto fino alla strada principale verso la collina».
«Ma partiamo domani mattina».
Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow
Posted by Metropoli d'Asia on giugno 10, 2016
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