«Fate passare! Fate largo al cadavere…».
Quando siamo arrivati a Kalbadevi, la tonante voce di basso di Rustom aveva perso un po’ della sua baldanza, e le sue grida si erano fatte più flebili e sporadiche. Io mi sentivo le gambe malferme e tremanti. Ciò nonostante, la gente si faceva da parte, rispettosa, e alcuni mormoravano perfino tra sé: «Un cadavere parsi!», quasi stupiti che la morte avesse davvero colpito un membro di quella comunità privilegiata e singolare.
Sarebbe stata una scarpinata lunga e noiosa, lo sapevamo tutti, anche se avevamo preso la via più breve possibile: superata la Flora Fountain e Dhobi Talao, attraverso Girgaum e Hughes Road, per arrivare infine alle Torri. Ma a un certo punto, sotto il sole cocente, sono inciampato, rischiando di perdere la presa sul catafalco.
Non mangiavo niente dalla sera prima. Poco prima di andarcene dalla casa di Cusrow Baag, alcuni vicini gentili della famiglia del defunto ci avevano allungato una ciotola di terracotta piena di vino di palma – aspro da morire, ma l’avevo bevuto avidamente, perché avevo la bocca riarsa – e cubetti marroni di zucchero grezzo infilati in ciambelline morbide di pane bianco: ci dovevano dare energia per la lunga camminata del ritorno.
Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry
Posted by Metropoli d'Asia on novembre 9, 2018
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