Qualche riflessione sul mercato editoriale cinese

La notizia dell’acquisto milionario di Cent’anni di solitudine non è un caso isolato: conosco almeno un paio di autori locali acquisiti per cifre di poco inferiori. La cosa ha suscitato scalpore in Cina perché è noto che, nonostante il mercato potenziale dei lettori sia enorme e non sia inusuale per un bestseller vendere due o tre milioni di copie, i margini sono in realtà bassissimi.

Il Garcia Marquez acquistato per un milione di dollari dovrebbe vendere quasi dieci milioni di copie per far tornare i conti. La cifra rappresenterebbe un record assoluto e quindi la domanda è: perché? Perché alcuni gruppi editoriali anche di non primissima grandezza sono disposti a questo azzardo?

In effetti l’industria editoriale cinese rappresenta di per sé un mistero. Durante un mio recente soggiorno a Pechino e Shanghai sono stato sconsigliato dal cercare partnership con l’editoria locale. I miei interlocutori mi hanno descritto il settore come oscuro e poco trasparente. I grandi gruppi di stato, pur nella loro dimensione tendenzialmente regionale (ciascuno è centrato su una grande metropoli), sono in forte lotta tra di loro, e la fioritura recente di case editrici indipendenti è persino considerata sospetta.

Ci si domanda da dove vengano fuori improvvise disponibilità finanziarie. E il sistema di distribuzione sembra essere estremamente gerarchizzato, organizzato in modo quasi feudale. Qualcuno mi ha citato la scarsa fortuna dei grandi gruppi editoriali internazionali che hanno tentato l’avventura cinese: dal fallimento di Bertelsmann alla scelta di Penguin di operare solo come ufficio di rappresentanza. Insomma: un’editoria autarchica, feudale, nelle mani di poteri corrotti.

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