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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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L’uomo tigre recensito su Contorni di noir

Il sito Contorni di noir ha parlato di L’uomo tigre, l’ultimo libro di Metropoli d’Asia, spendendo belle parole sia per il libro che per il suo autore Eka Kurniawan.

Kurniawan è l’esponente più interessante di una nuova generazione di scrittori indonesiani, sorti dopo la fine di una dittatura repressiva terminata nel 1998 che ha trattenuto e bloccato ogni sviluppo culturale in quella che attualmente è la nazione musulmana più vasta al mondo.  Le pagine di questo libro vi porteranno in un piccolo villaggio nei pressi dell’Oceano Indiano laddove si dipana la vicenda di due famiglie tormentate e legate tra loro.

(continua a leggere su Contorni di noir)

Un estratto di L’uomo tigre su China Files

Su China Files è possibile leggere alcuni passaggi di L’uomo tigre, di Eka Kurniawan, appena pubblicato da Metropoli d’Asia.

Il pomeriggio in cui Margio uccise Anwar Sadat, il sole era al tramonto e Kyai* Jahro era indaffarato con gli amati pesci del suo laghetto, accompagnato dall’aroma salmastro che aleggiava tra le palme da cocco e dai gemiti in falsetto del mare. Una brezza leggera avanzava lentamente, soffermandosi tra le alghe, gli alberi e gli arbusti. Il laghetto sorgeva in mezzo a una piantagione di cacao, i cui alberi erano spogli per mancanza di cure, con frutti rinsecchiti, sottili come peperoncini, e foglie utili solo alle fabbriche di tempeh** che mandavano i loro operai a coglierle furtivamente ogni giorno all’imbrunire. In mezzo alla piantagione scorreva un ruscello pieno di anguille e pesci testa di serpente, circondato da una palude in cui si riversava l’acqua in caso di alluvione.

(continua su China Files)

L’uomo tigre su Repubblica

Il libro di Eka Kurniawan L’uomo tigre, appena uscito per Metropoli d’Asia, è stato segnalato da Flavia Pantanella su Repubblica, nella rubrica Lo straniero.

(clicca sull’immagine per ingrandirla)

In libreria: L’uomo tigre, di Eka Kurniawan

«Il giovane Eka Kurniawan è senza dubbio tra gli scrittori più interessanti presenti oggi nello scenario letterario indonesiano»
The Sun Daily

«Scoprire l’eleganza della scrittura di Eka Kurniawan e l’esuberanza del suo immaginario è entusiasmante come guardar cadere i primi fiocchi di neve da un cielo invernale»
The Jakarta Post

In una piccola cittadina indonesiana, il ventenne Margio uccide Anwar Sadat, un anziano e incallito sciupafemmine. L’omicidio viene compiuto in modo insolito: Margio ha morso il collo della vittima fino a spezzarne l’osso, proprio come una tigre uccide la sua preda. Sullo sfondo di un’Indonesia moderna ma ancora radicata in tradizioni ancestrali, il romanzo conduce il lettore in un labirinto di abusi e magie, di forti pregiudizi e impulsi irrefrenabili. Con uno stile composito, vivace e ironico, l’autore ci racconta la storia di due famiglie tormentate e di Margio, giovane a cavallo tra ambiente urbano e rurale e combattuto tra due nature, quella umana e quella soprannaturale.

«La tigre era bianca come un’oca, feroce come un cane selvatico. Mameh la vide emergere una volta per un breve istante dal corpo di Margio, come un’ombra. Non l’aveva mai vista prima e non l’avrebbe più rivista. Un segno indicava la presenza della tigre dentro il fratello; Mameh sapeva riconoscerlo ma ignorava se fosse l’unica in grado di farlo. Si poteva vedere solo al buio, era uno scintillio giallo, felino, che balenava negli occhi di Margio. Inizialmente lei si spaventava nel vedere quegli occhi, terrorizzata all’idea che la tigre potesse riemergere. Ma con il passare del tempo, e con il fatto che ormai vedeva quegli occhi che brillavano al buio fin troppo spesso, smise di preoccuparsene. La tigre non era sua nemica e non le avrebbe fatto del male; anzi, forse era lì per proteggere tutti loro».

L’uomo tigre, di Eka KurniawanACQUISTA ONLINE

Hammerstein a Jakarta: il borsalino, gli scacchi, i romanzi in parallelo, un traffico da paura

Richard Oh molte ne ha fatte: scrittore, editore, libraio, fondatore di premi letterari a Jakarta. E scacchista sul web, seduto dentro alla sua Reading Room.

(continua su Pagina99)

A Ubud LitFest: di democrazia, turismo letterario, Islam, caste, classi

Un festival atipico nell’isola di Bali, grandi dibattiti, un po’ di turismo, grandi nomi, un po’ di glamour. Budget risicato, ma ottimo team di festival programmer, quasi tutte donne. Indonesia sugli scudi.

(continua su Pagina99)

Goenawan Mohamad all’Ubud Writers & Readers Festival

Come annunciato sulla pagina Facebook dell’Ubud Writers & Readers Festival, il poeta indonesiano e fondatore della rivista Tempo, Goenawan Mohamad, sarà presente nella prossima edizione del Festival, che si terrà dall’1 al 5 ottobre 2014.

L’Indonesia a Francoforte

Questo articolo del Jakarta Globe fa il punto sulla situazione della letteratura dell’Indonesia, anche in considerazione della sua nomina come paese ospite nell’edizione 2015 della Frankfurt Book Fair.

Per assicurare la partecipazione è stato predisposto un programma governativo, corredato anche da un blog per seguire la marcia di avvicinamento all’evento.

Uno dei problemi principali riguarda la traduzione dei romanzi esistenti in tedesco o in inglese, operazione che alcuni giudicano sia partita troppo tardi e che comunque è solo un primo passo verso l’avvio di una commercializzazione dei volumi su quei mercati.

Via: @AndreaPira

Jakarta Trio

Jakarta non è una bella città, per quel poco che ne ho visto. Vialoni a doppia carreggiata lungo i quali fioriscono i grattacieli, un traffico costantemente bloccato, vie laterali poco interessanti, anche quelle costantemente in costruzione o ricostruzione.

Un centro poco riconoscibile, nessun vero punto di riferimento. Appuntamenti da un lato all’altro della città che costringono a traversate di ore. Blocchi veri e propri, seduto nel taxi fermo che spegne il motore perché così consigliano le autorità. Quando arrivo al luogo dell’appuntamento, il mio interlocutore se ne è già andato, oppure non è ancora arrivato.

La soluzione è: non muoversi, convocare le persone dove sono io, magari nel bar di un grande albergo o di un centro commerciale. Richard Oh ha una soluzione più semplice: fa tappa in un wine bar a partire dal primo pomeriggio, e lì riceve gli ospiti. E, come molti degli abitanti di Jakarta, utilizza ogni mezzo di comunicazione che gli permette di non muoversi: I-Pad I-phone Blackberry, ciascuno con le sue chat, con il suo acceso Skype, e vai di video.

A Richard mi aveva introdotto Sharon Bakar, dama organizzatrice di reading a Kuala Lumpur, vero crocevia per tutto il sudest asiatico. E per il primo incontro Richard mi faceva l’onore di venire a sedersi nella hall del mio albergo: portava con sé due giovani e belle ragazze. Che tra loro, devo dire, si assomigliavano un po’.

Dewi Lestari più alta, entusiasta, letteralmente gasata, un fiume inarrestabile di sorrisi e di parole, e di ottimismo rivendicato come tale, rivenduto a piene mani. E Djenar: Djenar Maesa Ayu, più ombrosa, la bocca piegata a tratti in una smorfia di disgusto, fatica evidente a relazionarsi con me, ci vuole una tenaglia per tirarle fuori qualche parola. Dopo un po’ capisco che, delle due, quella legata a Richard Oh è Djenar. Ma Richard, mi dice, è solo l’agente.

Dewi ha avuto il suo momento di notorietà, nel paese. Supernova è il titolo del volume più venduto di una trilogia new age, racconti incrociati senza una trama evidente, con molti riferimenti alla fisica e alla cosmologia, in cui Dewi sciorina a piene mani il suo verbo: ottimismo, speranza, apertura nei confronti del prossimo, il tutto condito con una passione per il luogo comune che a me non piace.

Vegetariana, buddista solo un po’, prodiga di consigli di vita, abile nel descrivere le situazioni in cui gli abitanti di una grande città si impantanano regolarmente, un romanzo un po’ self-help un po’ avanguardia, del quale basta leggere poche pagine per capire che il tono è quello dello smagliante sorriso di Dewi Lestari, della sua fiducia incondizionata nella vita e nel prossimo.

Agente di sé stessa, sì: capisco che per quanto riguarda Dewi la posizione di Richard Oh è invertita, rispetto al suo ruolo di agente di Djenar: l’ha portata da me perchè introdurla a un editore europeo è buon modo di guadagnare la sua fiducia, di portarsela in scuderia (si dice così, con gli agenti: siano poi purosangue di pedegree, giovani puledre, o semplici stalloni da traino, gli scrittori vengono messi in pista, testa bassa, briglie sciolte e frustino in piena attività; chi vince?).

Dewi la incontrerò di nuovo all’Ubud Literary Festival sulla magnificente isola di Bali, sorprendentemente su un palco con un microfono in mano: ha iniziato come cantante, il suo miglior lavoro, mi dirà, è un cd musicale, che si vende con una raccolta di racconti in allegato: Rectoverso. In sostanza: una artista vera (è una bellissima donna, ma non è questa la ragione del suo successo, in Indonesia sono tutte così), ma una scrittrice (e un essere umano) troppo di maniera. Simpatica, però.

(Una piccola digressione: io quando incontro donne così, molto comprese nella loro parte di credenti new age, piene della loro fiducia e quindi fede nel futuro, e di un ottimismo cosmico, non riesco a non pensare a certe nostre donnette di chiesa, alle suore, alle signore di parrocchia raggianti per l’ultimo atto di beneficienza. Certo asessuate queste: e Dewi non lo è di certo. Però…).

Quanto Dewi appare un po’ già vista, clone locale di un cliché americano, tanto Djenar è sorprendente. Innanzitutto l’età: pensavo sotto i trenta, ma Djenar Maesa Ayu è già nonna. Poi il legame con Richard Oh: un giorno che vuole incontrarmi le chiedo di venire nel solito centro commerciale dove ho appuntamento con Richard, lei mi chiede di non farglielo sapere, e mi riceve in un angolo lontano di un bar ai piani superiori: mi dice: abbiamo rotto, preferisco non incontrarlo. Faccia scura, sguardo contrito.

Prima, e dopo, questo nostro incontro io la vedo sempre insieme a Richard, a Jakarta e a Ubud, dove loro due sembrano ospiti fissi. Di Djenar Maesa Ayu leggo una raccolta di racconti tradotta in inglese: They Say I am a Monkey. Una via di mezzo tra l’allegoria e la fantasia morbosa, o malata. Spesso il punto di vista è quello di una bambina alle prese con i molti visitatori che sua madre riceve in casa, o con un’ adulto che le porta un grosso serpente, o con il dolore fisico provocato da ripetute cadute di cui non riesce a capacitarsi, e delle quali una coppia di genitori le impone di non raccontare niente a nessuno.

Il suo romanzo invece è Nayla, in cui l’io narrante è una ragazzina alle prese con una madre paranoica, che le serra la vagina con una spilla da balla, come un’infibulazione punk. La ragazzina cresce, e i suoi passi verso l’età adulta sono scanditi dalle esperienze sessuali in serie, che la emancipano dal ricordo del dolore fisico subito. E qualcuno dice: Nayla è autobiografico. E qualcun altro dice: lo dice lei, che Nayla è autobiografico: ci ricama sopra, la ragazza, sulla propria presunta autobiografia di sofferenza.

Eppure Djenar ha avuto davvero una figlia in giovanissima età (sedici anni), e la sua smorfia tradisce un disagio non di facciata. Si relaziona spesso con me in modo nevrotico, prima mi da appuntamento di nascosto da Richard, poi mi incontra a Ubud con Richard e mi dice che loro abitano insieme, poi di nuovo a Jakarta mi dirà che Richard non è più il suo agente, e che lei vuole trattare direttamente con me.

Il bianco e il nero, Dewi e Djenar. L’ottimismo e il pessimismo, la gioia e il dolore (e io perchè preferisco la scrittura della seconda? Perché mi pare un terreno più solido su cui poggiare i piedi, perché mi pare che la verità di Djenar, anche se falsificata, racconti più della fantasia esorbitante di Dewi).

In mezzo, tra le due, serafico e tondeggiante come un piccolo Budda (e da noi si direbbe: ci sta come un Papa), Richard Oh imperversa. Nel suo wine bar mi offre una cenetta da leccarsi i baffi, vino buono di Francia. Oh è cognome cinese, quella indonesiana è una delle comunità più perseguitate dell’Asia del sudest: Richard ne ha raccontato in un paio di romanzi (molto poco riusciti, mi dicono) e autopubblicati. Lui di mestiere, sostiene, mette in contatto le persone. Giornalista, organizza un Katulistiwa Literary Award ogni anno: libri buoni, libri meno buoni (MdA ha partecipato a una edizione, e non abbiamo pubblicato il romanzo vincitore e da noi premiato!).

Foto: fidzonflickr

Il punto sull’Ubud Festival

L’Ubud Writers & Readers Festival ha aperto ieri, in tono minore rispetto alle ultime due edizioni che lo avevano visto crescere per la qualità degli ospiti e delle discussioni suscitate.

Un programma ristretto a soli quattro giorni, una nutrita pattuglia di autori indonesiani con molte assenze di rilievo, la consueta sfilata di nomi dall’Australia (le cui Università continuano a imporre il proprio ruolo di chioccia al mondo editoriale del sudest asiatico), una spruzzata di americani e britannici (direi Junot Diaz su tutti).

Kunal Basu dall’India, Tariq Ali dal Pakistan. Lo sponsor principale, City Bank, è venuto a mancare a pochi mesi dal festival e il programma ne risente. Peccato, perchè l’occasione, e il luogo, meritano di più: una cittadina in mezzo alla foresta e alle risaie dell’isola di Bali i cui alberghi, sulla soglia della stagione delle piogge, aprono gratuitamente le loro stanze agli ospiti.

Per questo nelle ultime edizioni Ubud era riuscito a imporsi come crocevia delle scritture asiatiche, una sorta di seconda Jaipur (che invece si tiene in febbraio).

Ricordo l’anno scorso l’esultanza di molti autori nel trovarsi in questo luogo magico: di fatto una strada che percorre una cresta tra due valloni verdeggianti, gli hotel e le guest houses aggrappati sui due versanti.

Qui sono alcune gallerie d’arte tra le più importanti dell’Indonesia: l’arte contemporanea non risente della crisi, fiumi di denaro continuano a essere riversati su pittori, scultori e performers e gli scrittori cominciano a domandarsi se abbiano scelto il mestiere giusto. Insomma: cosa fare per rendere trendy la narrativa asiatica?

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