Angloindiano e lingue locali

Stiamo traducendo una raccolta di racconti di R. Raj Rao, e ci ritroviamo di fronte una questione già molto dibattuta (internamente, a MdA). In India gli scrittori contemporanei usano la lingua inglese, lingua della comunicazione in quel paese (lingua dei media, delle università, delle scuole d’azienda e delle relazioni tra top manager e politici).

Lingua correntemente utilizzata dai più giovani, sopratutto negli strati medi e alti della popolazione, ma costantemente arricchita da termini, frasi, espressioni dell’Hindi o delle lingue locali (ce ne sono più di venti, in India, appartenenti a due gruppi linguistici principali).

Nella lingua scritta questi termini compaiono oramai in tondo (una decina di anni fa ancora si usava il corsivo) sia quando indicano cibi, o vestiti, o figure religiose che non hanno una traduzione equivalente in inglese, e sembrano entrati a far parte di un unico corpus linguistico che si è guadagnato la definizione di angloindiano. Ora la domanda è: come tradurlo in italiano?

Anni fa l’uso imponeva l’evidenziazione in corsivo dei termini in Hindi o altre lingue locali, e a fine volume un glossario, con la traduzione. Negli anni molti editori hanno iniziato a introdurre il tondo per termini ormai entrati nell’uso comune: sari, kurta, masala. Ma come definire questo spartiacque? Cosa fare con i nomi di elaborate pietanze che sarebbe ridicolo tradurre? E perché, in altri casi, imporre al lettore di andare fino al glossario per conoscere la traduzione di un termine, invece che averla immediatamente sott’occhio?

È arrivato Amitav Gosh, a sciogliere con la sua spada il nostro nodo. In una lettera ai suoi editori ha chiesto che nessun termine in corsivo e nessun glossario fossero utilizzati per i suoi romanzi. In sostanza: siete editori (in italiano, francese, spagnolo), traducetemi. Che fare?

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