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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Ricapitolando un po’ su Rushdie a Jaipur

Il giorno prima dell’inizio del Festival alcuni politicanti locali annunciano manifestazioni contro la presenza di Salman Rushdie al Jaipur Literary Festival. Siamo in periodo pre-elettorale e tutto fa gioco: voti musulmani da conquistare. Ricordiamoci che siamo in un paese dove i fondamentamentalismi religiosi (quello indu su tutti) sono vastamente utilizzati come strumenti di consenso elettorale e di potere.

Tutti sono abituati al succedersi di casi del genere. A tratti, con una certa regolarità purtroppo, la conflittualità interreligiosa (che si sovrappone a quella tra Pakistan e India) esplode, nel senso letterale del termine: pogrom, attentati, bombe. Saltano per aria stazioni ferroviarie e altri luoghi frequentati. E questi sì sono fatti importanti.

Ma la notizia delle manifestazioni anti-Rushdie viene trattata dagli organizzatori del Festival e dagli scrittori e intellettuali locali come fatto di routine. Appunto, siamo in un paese che alle notizie minori ci ha fatto il callo.

Il giorno dopo Rushdie annuncia di avere ricevuto dai servizi segreti la notizia che da Bombay sono in partenza due (o tre) killer prezzolati per ucciderlo: e rinuncia al festival. La notizia, di nuovo, è accolta con una certa sufficienza a Jaipur: gli organizzatori chiedono esplicitamente alla stampa di occuparsi degli altri scrittori e non solo del caso Rushdie. La sensazione prevalente è: Rushdie (odiatino e invidiato, uomo di grande potere) si sta facendo un po’ di pubblicità, i politicanti ci rompono come sempre le scatole, il fondamentalismo è la solita tara, ma noi cerchiamo di tirare dritto.

Quattro scrittori invece iniziano una protesta: in apertura delle loro sessioni di dibattito iniziano a leggere brani da I versi satanici. Gli organizzatori accorrono e chiedono loro di sospenderne la lettura. Improvvisamente tutti si rendono conto che il libro è censurato in India (paese a maggioranza induista, non c’è nessuna Sharia, qui). Anzi le autorità locali, saputo dell’accaduto, consigliano ai quattro scrittori di lasciare immediatamente il paese, perché esiste il rischio concreto di essere arrestati (per loro, e il rischio che nel frattempo si spostino consistenti pacchetti di voti).

Di nuovo, la cosa viene accolta come si accoglie la grandine: è l’India, ne succedono di cotte e di crude ma andiamo avanti. Parte una petizione contro la censura a I versi satanici, e qualcuno fa osservare che i libri censurati sono molti, in India: urge un censimento. E le censure appaiono avere carattere di assurdità spesso e volentieri, proprio perché risultato di manipolazioni del consenso da parte di piccoli e grandi potentati politici, a livello nazionale e locale.

Ma quando le autorità centrali (e i servizi) annunciano che non è mai partito nessun allarme riguardo ai killer, e che anzi l’allarme è da considerarsi risibile, a molti cadono le braccia. Rushdie è atteso da un giro di conferenze stampa: c’è un film in produzione tratto da I figli della mezzanotte.

In conclusione: al di là del consueto show mediatico e pre-elettorale, mi pare di vedere tre posizioni differenti.

La prima è quella di autori indiani in voga, vedi il Moccia locale Chetan Bhagat (stranamente tradotto in Italia da un editore bravo e attento come E/O), che rappresentando in modo organico (così si diceva una volta) la cultura del ceto medio indiano, afferma che se Rushdie ha offeso i sentimenti religiosi di qualcuno è giusto che sia perseguito. In sostanza: in India emerge una classe di moderni benpensanti e gli scrittori da show li rappresentano pienamente.

La seconda posizione è quella di autori indiani non residenti, cioè di cittadinanza (e magari nascita) americana o britannica, che reagiscono in modo automatico alla fatwa, senza farsi troppe domande sul contesto: come se il fatto accadesse a Londra.

La terza è quella di molti scrittori e intellettuali indiani (è abbastanza chiaro che io concordo con questi ultimi) che prendono spunto per aprire una campagna sulla censura, ma insistono nel ricordare che in questo paese i problemi sono ben altri (e soprattutto i killer: sui giornali veniva in questi giorni confinata in pagina interna la notizia di quattordici tra poliziotti e cittadini trucidati da un assalto maoista nel nord-est del paese, e sarebbe stato la stessa cosa se si fosse trattato del solito omicidio di massa di contadini da parte delle forze di sicurezza indiane). Salman Rushdie, per queste persone, è proprio l’ultimo dei problemi, in India.

Nota a margine: le prime due posizioni esprimono dei luoghi comuni. La terza è posizione da scrittori veri proprio perché lontana dal luogo comune (o stereotipo che dir si voglia).

Seconda nota a margine: noi occidentali dobbiamo stare molto attenti a non riproporre i nostri luoghi comuni nelle realtà altrui.

E comunque: no alla censura.

PS: In Italia esistono libri e/o spettacoli censurati? Quali? Che sentimenti religiosi offendono?

Foto: kittell

Annie Zaidi, quattro anni fa, a Delhi

Il contatto me lo aveva dato Peter Griffin, di Caferati, una fanzine (una volta si diceva così) on line. Lui, non ero riuscito a incontrarlo (abitava a Navi Mumbai, due ore e passa di treno, al di là dello stretto). Andavo a Delhi, e allora mi aveva dirottato su Annie.

Delhi non era facile da girare, allora. Non c’era ancora il metrò (costruito, alla faccia delle lentezze indiane, a tempo di record), la città è immensa perchè il Raj (l’impero britannico) decise di estendere la piccola Delhi verso sud, e Nuova Delhi (oggi nessuno la chiama così) fu costruita come una serie di lunghi vialoni alberati, interconnessi da gigantesche rotatorie e circondati di verde e di palazzi governativi, o residenze dei potenti, o ambasciate.

Attorno a questa zona di urbanesimo museale nascono poi le cosiddette enclave, e cioè quartieri circondati da un muro, ai quali si accede da cancellate a voste presidiate da guardiani: dentro, si ritrova spesso l’India dei vicoli, e meno spesso un’India di stradine silenziose e edifici bassi, tante piante. Ma taxi, neanche a parlarne, quattro anni fa. Nemmeno un numero per chiamarli, o almeno un numero affidabile. Quindi bisognava viaggiare in autorisciò, nei dieci gradi scarsi delle mattinate di gennaio, a macinare chilometri a decine, aria gelida sulla faccia e fumi di scarico opulenti.

Eccomi dunque a accettare la proposta del mio hotel: una loro macchina a pagamento, prezzi irrisori da India (ma sta cambiando), e, sorpresa, un macchinone grande come una nave e un autista in livrea con tanto di berretto: mai visto in vita mia. E quando penso al mio arrivo sotto la villeta a schiera dove viveva Annie ai tempi provo un senso di vergogna: per i discorsi che ci siamo poi fatti, per i racconti miei di viaggi a piedi dentro alle baraccopoli africane, che incrociavano i racconti suoi di inchieste sul campo, nei villaggi lontani. Parlammo molto di Kapuscinski. Zio Ryszard.

Perché mi presentavo ancora come scrittore, allora: bei tempi, mannaggia. Ero in India a occuparmi d’altro, ma cominciavo a incontrare scrittori più per curiosità che altro. Un’antologia, chissà. Manco sapevo come funzionava davvero, l’editoria. Anche se cominciavo a stupirmi di quanta roba buona leggevo, in inglese, roba di cui nessuno si interessava nel mondo (bei tempi, mannaggia).

Insomma, mi accoglie una giovane ragazza, bellissima e spaventata dal transatlantico con ammiraglio posteggiato sotto casa. Ricordo che, credo per vincere l’imbarazzo, mi offrì un breakfast all’indiana, un ottimo piatto di patate e paratha, pane al burro. C’era una donna, nell’appartamento, intenta a rigovernare, con la quale Annie aveva una relazione evidentemente di complicità. Il donnone mi guardava raggiante, esibendo un sorriso larghissimo che sembrava dire: è arrivato il principe azzurro. Il quale principe si vergognava proprio un bel po’.

E sì che Annie non viene certo dagli slum: una laurea, una madre che le telefona tre volte al giorno (non una parola sul padre, da parte di una scrittrice che della violenza sulle donne fa il perno della propria indagine sul mondo), la bella casa con balcone, una libreria dove trovo Vonnegut (non sarà la prima volta, a Delhi) e altre chicche, tracce esplicite della condivisione con altre due ragazze della sua età (ventisei, ventotto, trenta?), da giovani privilegiate.

Alta middle class, ma con la voglia di guardarsi attorno. Non so bene di cosa ci siamo detti quel giorno, io avrò raccontato i miei monfalconesi, lei i suoi tentativi nella redazione di una rivista per farsi mandare in giro, a fare inchiesta. Griffin me la aveva presentata come giovanissima poetessa, ma qui c’era ben altro: una donna adulta con dei desideri adulti (non sto sminuendo la poesia, sto esaltando la voglia di conoscere, la necessità: la brama, pensa un po’).

Poi sul transatlatico, in mezzo al traffico, a vergognarmi ancora. La portiamo in redazione. A pochi metri dal parcheggio, in coda al semaforo, Annie chiede all’autista di fermarsi, perché una bambina batte sul vetro. Ma non chiede niente. Parlano, in hindi. Annie sembra rassicurarla, le mette una mano sulla testa. Ripartiamo e le chiedo di spiegarmi: dice che conosce la bambina, la vede lì tutti i giorni, per quel che può la fa da chioccia. La bambina le ha detto: ho bisogno di parlarti. Annie ha risposto: arrivo tra dieci minuti.

Dieci minuti: il tempo di salutare questo europeo in transatlantico, e il suo autista in livrea e berretto a visiera rigida (che si è rifiutato di togliersi anche a fronte di una mia precisa richiesta: e, per dirla tutta: allora chi era, quell’uomo silenzioso? Cosa avrà pensato di me? E di Annie?).

Ci siamo rivisti qualche volta, a Bombay e al festival di Jaipur. Lei ha pubblicato Known Turf, con Tranquebar, io lo ho tradotto con I miei Luoghi. Il primo non-fiction di Metropoli d’Asia, forse il libro più bello che abbiamo pubblicato (parola mia: da scrittore).

Jakarta Trio

Jakarta non è una bella città, per quel poco che ne ho visto. Vialoni a doppia carreggiata lungo i quali fioriscono i grattacieli, un traffico costantemente bloccato, vie laterali poco interessanti, anche quelle costantemente in costruzione o ricostruzione.

Un centro poco riconoscibile, nessun vero punto di riferimento. Appuntamenti da un lato all’altro della città che costringono a traversate di ore. Blocchi veri e propri, seduto nel taxi fermo che spegne il motore perché così consigliano le autorità. Quando arrivo al luogo dell’appuntamento, il mio interlocutore se ne è già andato, oppure non è ancora arrivato.

La soluzione è: non muoversi, convocare le persone dove sono io, magari nel bar di un grande albergo o di un centro commerciale. Richard Oh ha una soluzione più semplice: fa tappa in un wine bar a partire dal primo pomeriggio, e lì riceve gli ospiti. E, come molti degli abitanti di Jakarta, utilizza ogni mezzo di comunicazione che gli permette di non muoversi: I-Pad I-phone Blackberry, ciascuno con le sue chat, con il suo acceso Skype, e vai di video.

A Richard mi aveva introdotto Sharon Bakar, dama organizzatrice di reading a Kuala Lumpur, vero crocevia per tutto il sudest asiatico. E per il primo incontro Richard mi faceva l’onore di venire a sedersi nella hall del mio albergo: portava con sé due giovani e belle ragazze. Che tra loro, devo dire, si assomigliavano un po’.

Dewi Lestari più alta, entusiasta, letteralmente gasata, un fiume inarrestabile di sorrisi e di parole, e di ottimismo rivendicato come tale, rivenduto a piene mani. E Djenar: Djenar Maesa Ayu, più ombrosa, la bocca piegata a tratti in una smorfia di disgusto, fatica evidente a relazionarsi con me, ci vuole una tenaglia per tirarle fuori qualche parola. Dopo un po’ capisco che, delle due, quella legata a Richard Oh è Djenar. Ma Richard, mi dice, è solo l’agente.

Dewi ha avuto il suo momento di notorietà, nel paese. Supernova è il titolo del volume più venduto di una trilogia new age, racconti incrociati senza una trama evidente, con molti riferimenti alla fisica e alla cosmologia, in cui Dewi sciorina a piene mani il suo verbo: ottimismo, speranza, apertura nei confronti del prossimo, il tutto condito con una passione per il luogo comune che a me non piace.

Vegetariana, buddista solo un po’, prodiga di consigli di vita, abile nel descrivere le situazioni in cui gli abitanti di una grande città si impantanano regolarmente, un romanzo un po’ self-help un po’ avanguardia, del quale basta leggere poche pagine per capire che il tono è quello dello smagliante sorriso di Dewi Lestari, della sua fiducia incondizionata nella vita e nel prossimo.

Agente di sé stessa, sì: capisco che per quanto riguarda Dewi la posizione di Richard Oh è invertita, rispetto al suo ruolo di agente di Djenar: l’ha portata da me perchè introdurla a un editore europeo è buon modo di guadagnare la sua fiducia, di portarsela in scuderia (si dice così, con gli agenti: siano poi purosangue di pedegree, giovani puledre, o semplici stalloni da traino, gli scrittori vengono messi in pista, testa bassa, briglie sciolte e frustino in piena attività; chi vince?).

Dewi la incontrerò di nuovo all’Ubud Literary Festival sulla magnificente isola di Bali, sorprendentemente su un palco con un microfono in mano: ha iniziato come cantante, il suo miglior lavoro, mi dirà, è un cd musicale, che si vende con una raccolta di racconti in allegato: Rectoverso. In sostanza: una artista vera (è una bellissima donna, ma non è questa la ragione del suo successo, in Indonesia sono tutte così), ma una scrittrice (e un essere umano) troppo di maniera. Simpatica, però.

(Una piccola digressione: io quando incontro donne così, molto comprese nella loro parte di credenti new age, piene della loro fiducia e quindi fede nel futuro, e di un ottimismo cosmico, non riesco a non pensare a certe nostre donnette di chiesa, alle suore, alle signore di parrocchia raggianti per l’ultimo atto di beneficienza. Certo asessuate queste: e Dewi non lo è di certo. Però…).

Quanto Dewi appare un po’ già vista, clone locale di un cliché americano, tanto Djenar è sorprendente. Innanzitutto l’età: pensavo sotto i trenta, ma Djenar Maesa Ayu è già nonna. Poi il legame con Richard Oh: un giorno che vuole incontrarmi le chiedo di venire nel solito centro commerciale dove ho appuntamento con Richard, lei mi chiede di non farglielo sapere, e mi riceve in un angolo lontano di un bar ai piani superiori: mi dice: abbiamo rotto, preferisco non incontrarlo. Faccia scura, sguardo contrito.

Prima, e dopo, questo nostro incontro io la vedo sempre insieme a Richard, a Jakarta e a Ubud, dove loro due sembrano ospiti fissi. Di Djenar Maesa Ayu leggo una raccolta di racconti tradotta in inglese: They Say I am a Monkey. Una via di mezzo tra l’allegoria e la fantasia morbosa, o malata. Spesso il punto di vista è quello di una bambina alle prese con i molti visitatori che sua madre riceve in casa, o con un’ adulto che le porta un grosso serpente, o con il dolore fisico provocato da ripetute cadute di cui non riesce a capacitarsi, e delle quali una coppia di genitori le impone di non raccontare niente a nessuno.

Il suo romanzo invece è Nayla, in cui l’io narrante è una ragazzina alle prese con una madre paranoica, che le serra la vagina con una spilla da balla, come un’infibulazione punk. La ragazzina cresce, e i suoi passi verso l’età adulta sono scanditi dalle esperienze sessuali in serie, che la emancipano dal ricordo del dolore fisico subito. E qualcuno dice: Nayla è autobiografico. E qualcun altro dice: lo dice lei, che Nayla è autobiografico: ci ricama sopra, la ragazza, sulla propria presunta autobiografia di sofferenza.

Eppure Djenar ha avuto davvero una figlia in giovanissima età (sedici anni), e la sua smorfia tradisce un disagio non di facciata. Si relaziona spesso con me in modo nevrotico, prima mi da appuntamento di nascosto da Richard, poi mi incontra a Ubud con Richard e mi dice che loro abitano insieme, poi di nuovo a Jakarta mi dirà che Richard non è più il suo agente, e che lei vuole trattare direttamente con me.

Il bianco e il nero, Dewi e Djenar. L’ottimismo e il pessimismo, la gioia e il dolore (e io perchè preferisco la scrittura della seconda? Perché mi pare un terreno più solido su cui poggiare i piedi, perché mi pare che la verità di Djenar, anche se falsificata, racconti più della fantasia esorbitante di Dewi).

In mezzo, tra le due, serafico e tondeggiante come un piccolo Budda (e da noi si direbbe: ci sta come un Papa), Richard Oh imperversa. Nel suo wine bar mi offre una cenetta da leccarsi i baffi, vino buono di Francia. Oh è cognome cinese, quella indonesiana è una delle comunità più perseguitate dell’Asia del sudest: Richard ne ha raccontato in un paio di romanzi (molto poco riusciti, mi dicono) e autopubblicati. Lui di mestiere, sostiene, mette in contatto le persone. Giornalista, organizza un Katulistiwa Literary Award ogni anno: libri buoni, libri meno buoni (MdA ha partecipato a una edizione, e non abbiamo pubblicato il romanzo vincitore e da noi premiato!).

Foto: fidzonflickr

I temi, appunto: di che scrivono gli asiatici?

Appunto: è una parola che ricorre nei miei post. Un invito a rimarcare ciò che già ho scritto, quindi a ritornarci sopra, scrivendo come fosse punto a croce, con l’ago che torna a raccogliere il nodo già serrato e lo riaggancia più avanti, un passo oltre.

Provo a interpretarmi: quel che sto facendo è riprendere, dall’Asia, un percorso già iniziato (riannodo fili, è chiaro). Da qui raccolgo suggestioni, temi, frammenti di un mondo che descrivo e commento per quel che è: un mondo altro e distante (nuovo? parola oggi orrenda). Ma tra le righe ci leggo un riverbero della realtà mia, nostra: e allora lego e confronto, per procedere ancora (e non lo faccio solo scrivendo, ma anche scegliendo un romanzo da tradurre e pubblicare più che un altro).

E in quel che vedo non trovo un Altro a noi opposto (dove noi siamo Ricchi l’Asia è Povera, dove noi siamo Materialisti, loro sono Lo Spirito, dove noi siamo in Recessione, loro sono in Crescita), ma al contrario: ritrovo gli stessi interrogativi nostri, i nostri temi riproposti. Ma quali, dunque? Proviamo.

Gli scrittori e il mondo che hanno attorno. Il loro, di mondo. Le motivazioni, le ragioni dello scrivere. Che stanno dentro a esperienze individuali, ma anche dentro a una precisa connotazione sociale: i narratori asiatici non sono miliardari né senza casta né contadini espropriati né operai ridislocati. Sono professionisti, tutta gente che non vive al piano terra o nei seminterrati, ma su in alto, appartamenti con vista. Chirurghi, avvocati, scriptwriter, giornalisti, accademici, pubblicitari, videomakers. O figli e figlie: di manager, industriali, avvocati e chirurghi ancora.

Una certa aria nostra da secondo dopoguerra: dove da noi era ricostruzione e boom economico, qui è costruzione tout-court, e boom economico. Con tutto quel che si porta dietro: trasformazioni sociali, contrapposizioni e intersezioni tra ceti sociali diversi. Tra la ricchezza e la povertà: un baratro. Chiedendosi sempre, lo scrittore che sta in lassù, cosa succede in basso, e la società in generale, i media e i cosiddetti opinion leader, cosa sia giusto o sbagliato fare.

Consumi, ceto medio (ocio però: qui si dice middle class e si intende davvero chi sta in mezzo. Da noi si usa ceto medio per descrivere quasi tutto). Irreggimentazione dei comportamenti, frustrazione conseguente. Noia, forse, e al contrario una sottile sensazione di panico incombente (bellissima, ‘sta cosa, come ho già detto: Ballardiana).

Le donne: un ruolo nuovo, affrancate non tanto dai fornelli quanto piuttosto scaraventate in una modernità fatta di corsi di basket e nuoto per i figli, e di eterna rincorsa allo status. Da un lato, donne capaci di mettere in discussione la norma, l’abitudine consolidata, e di spingere in avanti il mondo. Dall’altro, donne come primo veicolo di consumismo, informazione come gossip, dittatura dell’emozione sul raziocinio.

Relazioni tra gli individui: estraneità e cattiveria, una buona dose di disperazione, ricerca a tutti costi di un pezzo di piacere, e a tutti costi vuol dire che lo si paga caro. Balle a gogò su sex and drugs and rock and roll, qualche verità omosessuale. Un bel tocco di solitudine.

E i lettori: narcisismo e paura del mondo. Qui i bestseller sono i cosiddetti self-help books, che ti insegnano a difenderti dal capo, a non essere timido, a utilizzare a pieno regime le tue risorse intellettuali e fisiche, a coltivare l’aggressività e la leadership! E poi tutti i romanzi che parlano del noi: noi quando eravamo all’università, noi giovani ribelli, noi famiglia in ascesa. Un io plurale ipertrofico, fin sgargiante.

What Am I Talking About When I Talk About Asia?

Rileggo i post di quest’ultima infornata. L’abbiamo voluta intitolare In diretta dall’Asia, e così è: anche se qualche pezzo è uscito sul blog mentre già mettevo le gambe sotto le molte tavole di questa fine d’anno in Italia, gli incontri e le descrizioni sono in presa diretta, scritte in quelle città d’Asia, con la memoria fresca.

Ma la memoria non è una telecamera. Scrivendo, noi non siamo mai live. La memoria, anche quella di pochi giorni o di una sola notte di sonno buono, seleziona, collega, interpreta. Accende un riflettore (un personalissimo sguardo) e lo punta dove le pare (a questo punto, con più rispetto, dovrei definirla La Memoria). (E per meglio definire il concetto vorrei dialettizzarlo ritmicamente: il riflettore La Memoria lo punta dove le pare a lei). (Il mio è un dialetto lombardo, che taluni politicamente stuprano per i loro personali affaracci, ma i dialetti sono nobili come ci insegnano tanti Zanzotto, Arbasino, Pontiggia).

La Memoria non è solo memoria, visto il modo in cui mi porta regolarmente fuori tema, a deragliare dentro a praterie esplorabili, esplorande. Mi par di ricordare che il latino avesse un tempo verbale proprio per un “dover fare in futuro”: esploratur, ci proviamo? (Ma: occhio ai doveri, lasciamoli stare, fidiamoci de La Memoria solo quando ci porta dove più ci pare e piace).

Niente latino quaggiù: hindi e marathi, cinese mandarino cantonese e hokkien (quello delle comunità immigrate nel sudest), malay così simile all’indonesiano e come quello irrobustito da termini direttamente derivati dall’arabo. Tamil, del Tamil Nadu, India del sud origine della migrazione in Indocina dei progenitori di quel Brian Gomez che porta un nome portoghese, da gente della costa, meticcia e contaminata, e ce lo rende in blues!

Mi par che questo post cominci con una lunga digressione che un po’ è un tirarla in lungo (o in lingua?) un po’, appunto, è La Memoria che mi porta a dare una risposta all’interrogativo di questa mattinata di galaverna in Lombardia: ma io che cerco? Quali sono i temi, quale il sottotesto degli incontri con tutta questa gente, delle perlustrazioni di città in città (Singapore, Kuala Lumpur, Taipei, Hong Kong, Delhi, Mumbai-Bombay-Bom Bahia) correndo dietro agli editori amici (e chissà, futuri soci…).

Perché sì, la risposta è sì: sì che ci voglio fare un libro prima o poi. Ma che ci racconto, io, in codesto libro? (Quando si scrive “io che cerco”, facendo un po’ il verso al “che ci faccio qui” di Chatwin, si scrive in realtà: ma io che voglio scrivere, davvero?) (Una volta, prima di aver mai letto né sentito parlare di quel libro di Chatwin, incominciai un lungo brano dal Burkina Faso con un “Ouagadougou, agosto, stagione delle piogge: ma che ci sono venuto a fare?”, e il direttore dell’amata rivista, letta la prima frase, lo cestinò – in senso letterale, lo gettò luciferinamente nel cestino della carta straccia dicendomi: già letto).

Ci sto girando intorno: quali sono i miei temi, in questi post? E poi: come organizzare un testo lungo sugli scrittori dell’Asia? Che controllo sono in grado di avere del mio narrare? Già: quali sono i miei temi? Rileggere, per capire. Rileggetur.

Meher Pestonji

Atterro a Bombay e scopro che il Nokia d’anteguerra dove archiviavo i numeri indiani mi ha lasciato. Ho le mie scatoline di biglietti da visita, certo, ma sento la mancanza dei numeri degli amici, le cui vecchie caselle di posta elettronica mi rimandano messaggi d’errore.

Ci penso mentre vado a zonzo per le vie di Colaba, sul lungomare, percorrendo l’Apollo Bunder dal Gateway of India (un brutto arco con decorazioni dallo stile incerto che fungeva da segnale di saluto per i navigli in arrivo dalle isole di Sua Maestà Britannica) al Radio Club, passando davanti all’ingresso del Taj Mahal Hotel (che è strano davvero: qualcuno ha detto che l’architetto ha fatto costruire questo magnificente albergo girandolo per il verso sbagliato: qui sembra di entrare dal retro, è vero che i cavalli in pietra segnalano l’ingresso, che però si compone di due porte piccole, basse; dentro, si apre un ambiente che va su fino alla grande cupola, con uno scalone che lo risale: sembra un ingresso tardi anni Ottanta, postmoderno!).

Dietro l’Apollo Bunder c’è un quartiere di strade ortogonali e edifici che nella fatiscenza tipica di Bombay conservano tracce di splendore: porticati, parti in legno, scalinate esterne, finestroni ampi e contornati di colonnine, la scelta stilistica è pure qui incerta, ma i giardini sono lussureggianti di piante tropicali, le vie interne riposano in un silenzio inatteso per questa caotica città. In una di queste vie abita Meher Pestonji, scrittrice di etnia Parsi che mi ha sempre offerto buoni bicchieri di liquore e utili e piacevoli chiacchiere.

Ma non riesco a ritrovarla, la casa. Non ricordo il nome della via, né la posizione esatta, né soprattutto riconosco un edificio. Oliver street? Forse. La casa era in un fiorente stato di abbandono, riconosco un possibile vialetto di ingresso ma a un edificio ristrutturato di recente e dipinto di un rosso granata (presente la maglia del Torino?) un po’ fuori luogo (benchè… ricorda l’Old Fort di Delhi, in fondo il colore è indiano). Chiedo all’immancabile guardiano: Pestonji? Sì, mi fa. Ma è appena uscita, c’è su la figlia.

Bene, allora ci sono. Ma: la figlia? Ricordo una giovane donna che si porta dietro un evidente stato di difficoltà. Ricordo la fatica di Meher nel descrivermela. Ricordo gli amici comuni dirmi: eh certo, poi lei ha Nishat. Nishat che si aggira per casa in pigiama, che ha deciso di posizionare la propria stanza da letto proprio all’ingresso di casa, per farsi ben guardare dagli ospiti mentre se ne resta rannicchiata sulla branda traballante che pretende di usare come letto. Nishat comunque discreta, gentile, che saluta distante come una persona in preda a una profonda depressione (o forse semplicemente sotto farmaci).

Salgo, lascerò un biglietto da visita con il mio numero.

Meher, dal canto suo, è una Parsi anomala: ha rotto la tradizione sposando un non Parsi, fatto che come è noto provoca alti lai tra i famigliari e rimostranze a non finire. Nel suo caso una rottura totale (anche se, va detto, è ormai pratica corrente tra le nuove generazione e i Parsi si stanno estinguendo: o almeno, così dicono loro, perché parsi si può definire solo il figlio di due Parsi! Strana attitudine, comune tra le minoranze, quasi un desiderio di suicidio etnico).

Meher ha reagito alla rottura diventando scrittrice. Il suo primo libro di racconti porta il titolo di Mixed Marriage, e ovviamente affronta l’argomento di petto. Dopo il divorzio con il marito (etnia: Cristiano), diventa giornalista e comincia a scandagliare le baraccopoli di Bombay. Ne risultano due romanzi, Sadak Chhaap e Parvez centrati rispettivamente su un bambino di strada e su una attivista.

(Di Meher ho già citato il suo testo per teatro: Feeding Crows, naturalmente organizzato attorno alla tradizione dai funerali Parsi. I corpi vengono lasciati sulla terrazza delle Torri del Silenzio, a Bombay, perché siano divorati dalle aquile pescatrici, o dagli avvoltoi. Problemino: le aquile pescatrici non ci son più, a Bombay, e cominciano a scarseggiare gli avvoltoi…. Un testo la cui evidente ironia aveva provocato crasse risate da parte di un uditorio, così mi disse Meher, in maggioranza Parsi).

Il solito inquietante ascensore sferraglia su fino al quarto piano. L’interno dell’edificio non è certo ristrutturato come la sua facciata, la scala è piena di calcinacci e, direi, materiali vari che danno l’idea di essere abbandonati lì da mesi. Come spesso in queste case la porta in legno è aperta, ma resta chiuso un cancelletto. A destra e a sinistra del corridoio le porte delle due stanze gemelle che Meher affitta: in alto sopra lo stipite la statuetta di Anuman, dio scimmia, da un lato, e il più comune Ganesh dall’altro.

Viene a aprirmi Nishat: che sommessamente mi riconosce, dopo quasi tre anni. Ma appare subito padrona di sé, con semplicità mi invita a sedermi in un salotto che ricordavo come squallido, illuminato da due tubi fluorescenti di gelido neon.

Nishat mi offre un tè. Mi propone i suoi biscotti appena usciti dal forno. Il salotto ora è pieno di oggetti d’arte, soprattutto statue in ferro a metà tra la tradizione e l’arte moderna, dovrò chiedere a Meher di cosa si tratta. E due belle lampade liberty fanno buona mostra di sè, e calore. (Il salotto peraltro è affacciato su due terrazze strepitose: un angolo di mare, i giardini di Colaba).

Certo, è sempre Nishat, il suo sguardo ha un che di opaco, come se ne restasse nascosta dietro a una distanza che le consente di non esibire emozioni, negative o positive che siano, e di non esserne sopraffatta. Come se non reagisse emotivamente.

Ma viene a sedersi con me, mi domanda di Metropoli d’Asia, e mi racconta del suo libro: sì ha pubblicato un libro. Sono ricette di cucina, l’editore è Poular Prakashan: editore locale, ma noto e ben distribuito. Il libro è stato presentato da Crossword, la libreria più importante della città, da una specie di star televisiva, che tiene una trasmissione di cucina molto seguita.

Dietro alla sua compostezza intuisco Nishat raggiante. Le ricette sono una personale reinterpretazione delle molte cucine presenti in India, contaminate tra loro: una sorta di nouvelle cuisine indiana, una fusion: in copertina una papaya farcita di ceci e altri legumi. Mi invita a cena, per una prossima serata.

Dalle nostre parti spesso riemerge una annosa questione (un “dibbattito”): chi scrive non vive, chi vive non scrive. Le Pestonji, madre e figlia, scrivono PER vivere. Meglio.

Kalpana Swaminathan

Kalpana è un’amica. E sono un amico anch’io: da South Bombay a Andheri capita di sorbirsi due ore nel traffico, per incontrarsi una volta ogni tanto a parlare un po’.

Andheri è una delle nuove zone residenziali di classe media a nord, oltre l’aeroporto, e non ha niente di bello da mostrare. C’è un vialone principale piuttosto scalcinato e costantemente in costruzione (serpentine, blocchi improvvisi, cumuli di terra che rendono l’aria opaca di polvere) che esibisce pochi tronfi centri commerciali.

In realtà ci vuole di più a percorrere l’ultimo pezzo di strada fino al ristorante che non a compiere l’intero tratto sud-nord, e i tavolini sulla strada al ristorante sono un controsenso di rumore (quassù circolano i motorisciò) e fumi di scarico. All’interno ci sorprende un incongruo arredamento anni Sessanta italiani, triangoli di plastica, specchi a gogò, e sedie scomode, sembra di essere al tabarin di Milano Calibro 9, con Gastone Moschin e Barbara Bouchet.

Se vien giù lei, meglio. Mi dà appuntamento a Magna Bookstore, una piccola libreria specializzata in narrativa indiana sulla MG (Mahatma Ghandi) Road che dal Regal Cinema attraversa Kala Ghoda e Fort, tra palazzoni grigi (quelli della fantascienza alla Bilal, ne ho già detto), porticati in pietra o in ferro come le stazioni di Parigi.

Seduti a Magna Bookstore si osserva dalla finestra la David Sassoon’s Library, sassi grigi, mattoni rossi, bifore dal disegno orientaleggiante: mughal dicono qui. Dentro si svolge ogni anno un piccolo festival letterario locale, la sala superiore è tutta in legno, ci sono delle sdraio da spiaggia su cui si accomodano a leggere il giornale vecchi signori in kurta bianca e panciotto ai quali vorrei sempre chiedere la loro storia.

Magna Bookstore al primo piano ha un bovindo in legno sulla strada, lungo e stretto, ci sono cinque tavolini a tre gambe, noi consumiamo un nostro rituale privato: beviamo ginger lemonade ghiacciata.

Di Kalapana Swaminathan qui avevo trovato The Gardener’s Song, il secondo giallo della serie Lalli, una poliziotta che vive in un condominio e in un quartiere dove i vicini le chiedono di risolvere il caso di omicidio che riempie le bocche di gossip popolari.

Divertente, frizzante, quasi una guida a Bombay: era il libro giusto per cominciare Metropoli d’Asia tre anni fa, ma l’ufficio diritti del mio ineffabile ex socio (Giunti Editore) se lo perse per strada (giuro: se lo son dimenticati!). Ritrovai in Italia Lalli a marchio Kowalski come Sapori Assassini a Bombay (in realtà è la traduzione del primo libro, Page 3 Murders) , perché Lalli è un’ottima cuoca. Il libro purtroppo fu letteralmente buttato sugli scaffali, sprecato, Kalpana lo sa, e noi festeggiamo con ginger lemonade il nostro lutto comune, il mancato connubio (il secondo libro della serie non lo si è quasi visto, del terzo hanno l’opzione e chissà).

Kalpana è chirurgo. Sì, avete capito bene. Chirurgo generico, ore e ore in sale operatorie che non riesco a immaginare, a Bombay: una volta mi ha fatto un rapido elenco dei materiali che scopriva mancanti mentre era lì in piedi su un corpo umano aperto, e allora altro che detective Lalli, per trovare una soluzione all’enigma.

Kalpana non è l’unico chirurgo scrittore che incontro in Asia, sembra un po’ una moda (anche avvocati, e giudici: ma questo accade pure in Italia). Il nostro Ambarish Satwick de Il Basso Ventre dell’Impero è chirurgo vascolare a Delhi, e ogni tanto se ne trova qualcuno a Singapore, a Jakarta, a Kuala Lumpur. Ne abbiamo parlato, con Kalpana, e lei mi ha fatto un discorso che ho già sentito.

Mi ha detto che la medicina, l’anatomia, la tecnica chirurgica costruiscono linguaggi. Che formarsi su un testo accademico di medicina (costruirci sopra quindi non solo la professione, ma anche la propria giovinezza) è un esercizio mentale che va oltre la disciplina in questione, è un mondo intero che si apre. Insomma: il gergo tecnico come un mondo parallelo.

Kalpana scrive spesso in coppia: con Ishrat Syed, anche lui chirurgo che con lei si fonde nello pseudonimo Kalpish Ratna. Lalli è di Kalpana, ma Uncertain Life and Sure Death è il capolavoro di Kalpish Ratna, un impubblicabile saggio in forma narrativa su una pestilenza del XVI Secolo a Bombay che è un virtuosismo linguistico perché mezzo trattato di scienza medica mezzo racconto individuale. (A ben pensarci: e il libro del chirurgo vascolare Ambarish Satwick non è forse un trattato di linguistica applicata?).

Così come di Kalpish Ratna è Quarantine Papers, un romanzo che non ha avuto grande fortuna in patria, ma che ci presenta un fascinoso racconto dell’India coloniale mescolando medicina, storia, arte: con i loro linguaggi specifici, e il tutto shakerato nel noir.

A me viene in mente (glielo ho raccontato) un corso di scrittura tenuto da Giuseppe Pontiggia nella Milano degli anni Ottanta. C’ero anch’io, e sui gerghi Pontiggia costruì una lezione di un’ora, raccontandoci come i testi universitari di anatomia fossero tra le sue letture preferite. Ora è difficile ricordarne i dettagli, ma ricordo una sua appassionata dissertazione sull’uso degli avverbi in quei testi.

Pontiggia sosteneva che il mestiere dello scrittore non è quello di raccontare storie, ma invece quello di innovare il linguaggio: e cioè di lavorare sul filo di una lingua corrente modificandola di continuo, portandola ogni passo più in là. Mostrando dentro alla sua scrittura proprio questo gioco di frattura e ricomposizione, come un equilibrista sull’abisso.

Per chiarire il concetto con un esempio ci parlò a lungo anche di calcio. Prima ricordando il grande Gianni Brera come un Arbasino della cronaca sportiva. Poi spiegandoci che il gioco del calcio è in sé un linguaggio: infatti lega persone diverse (i giocatori di una stessa squadra) che devono al contempo capirsi tra di loro con i movimenti del corpo, e ingannare gli avversari con gerghi a loro ignoti, o nuovi. E, diceva Pontiggia, i grandi del calcio sono coloro che sanno inventare dalla tradizione un linguaggio nuovo: secondo lui il più grande fu Platini.

(Di Platini ho provato a raccontare a Kalpana, con un po’ di vergogna. E lei? Mezzora sul cricket!).

Bombay vs. Singapore

Tornare a Bombay dopo quasi tre anni è buona occasione di confronti. Tutti mi chiedono: hai visto com’è cambiata? Io abbozzo, perché non vedo quasi niente.

Vengo da Singapore, da Hong Kong, da Kuala Lumpur, e non posso stupirmi più che tanto individuando – lontane da dove passo io – sagome di nuovi grattacieli all’orizzonte in certe zone centrali della città, Dadar, Lower Parel, Worli.

Mi dicono che i palazzi vengano su alti e stretti (o schietti?…) lasciando però la vecchia Bombay a prosperare ai loro piedi.

Come a dire che chi si può permettere un micro appartamento al trentaquattresimo piano in superlusso, una volta uscito dal portone ritrova sporcizia, gente che dorme per strada, baracchini che vendono ogni cosa, spazzatura e il consueto e cordiale odore misto di fognature, spezie e incenso che è sempre stata l’India (non dimenticherò mai il giorno del mio primo atterraggio nella città, ancora in aeroporto davanti al nastro bagagli un manager olandese incazzato che mi diceva: India stinks. L’India puzza: è vero, quell’odore lo senti appena passato il controllo passaporti. A me piace, guarda un po’).

Del resto, appunto, questa è la differenza tra le tante metropoli d’Asia e le grandi città indiane: una democrazia sostanziale, che impedisce alla classe media tronfia e imperante di liberarsi dei propri servitori che invece restano saldamente aggrappati alle sue caviglie. Costruendo questa organizzazione sociale profondamente interconnessa, dove gli intoccabili e i padroni delle ferriere convivono gomito a gomito e nessun ricco può dimenticare cosa c’è fuori dal recinto, perché il recinto non è stato costruito.

Le grandi città cinesi, Pechino, Shanghai, sono invece organizzate per gradi di separazione: come vigesse un’apartheid di censo, che lascia la povertà a venti chilometri dal centro scintillante, un’apartheid che separa i due mondi in modo netto e anestetizza le differenze sociali, creando zone franche, asettiche, emancipate dalla confusione e dal conflitto.

È l’India, questa, corrotta e ingovernabile, che cresce senza infrastrutture perché il Centro (lo chiamano così, il governo nazionale: molto Orwelliano, sì) è immobile e ci mette sette anni a costruire il nuovo ponte che dalla Highway (si fa per dire) dell’aeroporto, porta in un balzo alle soglie di Bombay South con un risparmio di mezzora buona sul traffico intasato.

E tutti a dire: e ci vorranno altri sette anni perché il ponte arrivi fino a Marine Drive, qui non siamo mica in Cina, qui per costruire qualcosa ci vogliono generazioni. E io faccio notare che il ponte lo ho attraversato quattro volte in taxi: c’è un casello, dove a mano si scambiano cinquanta rupie con una ricevutina, e a questo casello non ho mai trovato code perché cinquanta rupie per attraversare Bombay non se le può permettere nessuno qui: il ponte separa, per la prima volta, i due mondi.

Il famoso attore Bollywoodiano che uscendo dal pesante cancello di metallo della sua villa a Bandra si trova di fronte le baracche maleodoranti, e le vede dalla vetrata del salotto di casa sua, le sente nel naso, nelle ossa. Qui, sul ponte, è isolato. E percorre la baia osservando lontane, appunto, le nuove torri di Lower Parel, sognando una Singapore o una Hong Kong che qui non c’è e non ci sarà mai.

Io, ben protetto e isolato all’origine (Milano, Italy, Europe, In The West), resto a Bombay South ben protetto dentro a un appartamento signorile. Ne esco per godermi questo pezzo della città che ricorda un’altra fantascienza rispetto a Singapore (non Ballard) o Hong Kong (non le coreografie di Blade Runner): quella di certo fumetto nostro fine settanta primi ottanta (Bilal?), il degrado, il fatiscente del barocco aggredito dalle piante rampicanti che si infilano in ogni crepa di palazzi maestosi, arcate sovrastate da leoni assirobabilonesi, o più gentili architetture misto legno di bovindi, balconate, con pezzi interi di muro sradicati dalle radici di mandorli indiani improbabilmente affacciati a un quarto piano (altro che giardini verticali archistar di Singapore!).

E i palazzi vittoriani ed elisabettiani lasciati dai Brits, circondati di giardini abbandonati a sé stessi, al loro squallore ma alla loro frescura e silenzio, perché appena fuori il marasma è la regola, i corpi esalano, le esistenze stentate dei chaiwalla che portano il tè negli uffici delle società di marketing contaminano i creative managers, e si mangia con le mani, sporcandosi le dita di condimenti risultato di mille incroci, di ventidue lingue ufficiali riconosciute dal Centro, di culture e religioni e sette lontane tra di loro fino a tremila chilometri, dall’Himalaya all’equatore, dal Sud-est asiatico all’universo islamico.

Foto: ShashiBellamKonda

Raj Rao, quattro anni fa a Bombay

Avevo trovato il suo The Boyfriend (Il mio ragazzo) in tutte le librerie di Bombay. L’avevo letto, mi era piaciuto.

Non solo avevo scovato quel che cercavo, un romanzo che dimostrasse l’esistenza di un India nuova, contemporanea, capace di affrontare temi che sono anche i nostri, lontana dalle saghe famigliari di villaggio, a base di sari colorati e spezie.

La storia di un amore omosessuale a Bombay aveva la capacità di raccontare la città in molti suoi aspetti: la vita dei professionisti a cavallo tra giornalismo e pubblicità, la relazione tra le caste e i ceti sociali alti e gli intoccabili, anche le bombe e gli scontri tra fondamentalismi religiosi che hanno segnato la storia dell’India. Qualcuno, in Italia, mi aveva fatto notare: è un romanzo di costume, c’è poca letteratura alta. Sì, embè? Perché Pennacchi o la Avallone, allora?

Trovato il contatto, scoperto che il Professor Raj Rao dell’Università di Pune scendeva sempre a Bombay nel weekend, gli ho chiesto un incontro.

Cinquant’anni suonati, nessuna intenzione di esibire la propria omosessualità, Rao mi viene incontro davanti all’ingresso del Regal Cinema, uno dei luoghi simbolo della South Bombay. Non dovrei descrivere così uno dei più grandi scrittori indiani contemporanei, lo so: ma mi ha fatto l’effetto di un cagnolone che ti viene incontro con le orecchie basse, orecchie peraltro parecchio aperte ai lati del viso (una volta si diceva “a sventola”).

E un atteggiamento di dolore composto e trattenuto, una malinconia questa sì esibita, ma senza rancori, senza rimostranze. Vestito con blue jeans e camicia dello stesso colore, mi ringrazia con un certo ossequio per la mia decisione di pubblicarlo in Italia.

Io commetto l’errore tipico dei quelle mie prime settimane a Bombay: lo invito in un noto ristorante di Colaba, dove la qualità delle pietanze non è necessariamente superiore a quella dei ristoranti popolari (quindi eccelsa), ma lo sono i prezzi, e lo status dei clienti: siamo all’Indigo, giusto alle spalle del Taj Mahal Hotel, cucina fusion tra la francese e l’indiana, molti bianchi, indiani giovani stile Bollywood (cioè l’aria tamarra, camicia aperta sul petto, oro ai polsi e barba non fatta), indiani anziani stile funzionario di governo (kurta bianca e pancia prominente, arrivati sulla vecchia Ambassador bianca con autista e lampeggiane sul tetto).

È evidente la timidezza di Rao in questo ambiente, ma anche qui dovrei dire: timidezza contenuta, che non gli impedisce di richiamare un cameriere per precisare la sua ordinazione, ma vedo che gli sguardi che si lancia attorno sono di controllo. Preferisce un tavolo addossato al muro, e a tratti mi parla appoggiandosi con una spalla al muro stesso, un gesto da ragazzo.

Leggendo i suoi racconti (quelli che abbiamo appena pubblicato), avevo capito che mi trovavo di fronte a un autore di livello, ben determinato a non nascondere, anzi a rilevare nella scrittura la propria omosessualità.

Un intellettuale che nel corso di una già lunga vita ha affrontato le ovvie difficoltà (recentemente ha vinto una battaglia in università per ottenere il posto che gli spettava di diritto, Vice-Chancellor), e che si è abituato a muoversi con il passo lento e regolare di chi sta camminando in salita, su per un ghiaione di alta montagna, cercando di mantenere la propria velocità al di sotto della soglia aerobica (insomma: senza doversi fermare ogni cinquanta passi per il fiatone), tenendo per sé una fatica di cui è meglio dimenticarsi, senza stare mai a domandarsi perché si è scelto di camminare in salita, ma continuando passo dopo passo, difendendo l’integrità e la serenità del proprio pensiero: una libertà sotto tutela, insomma.

Ripensandoci, è quando gli ho chiesto quanto la propria condizione di omosessuale lo mettesse in pericolo in questa India ancora pervasa di fondamentalismo religioso e maschilistiche ovvietà, che Rao si è per la prima volta appoggiato con la spalla al muro, parlandomi.

Dopo la cena mi ha portato nel luogo simbolo del suo romanzo, tappa fondamentale della propria esistenza: il Testosterone, discoteca gay aperta da un decennio a Bombay lungo l’Apollo Bunder, in faccia al Gateway of India, a due passi dal Taj e soprattutto di fianco al Radio Club, un circolo tutto legno e vetri smerigliati per ricchi signori che immagino disturbati da una tale contiguità. Dal Testosterone escono i protagonisti de Il mio ragazzo la notte nella quale, rompendo davvero gli schemi, invece di lasciarsi intimidire da due poliziotti con i baffoni regolamentari (che sono lì, come è ovvio, a pretendere il servizietto gratis, lo stupro della Legge), li pestano per bene, tra le risate.

All’ingresso Raj mi presenta al cassiere, un po’ spaventato della mia presenza (scoprirò di essere l’unico bianco all’interno, l’accordo con le autorità quattro anni orsono era: non coinvolgete i turisti, tanto meno quelli in cerca di ragazzini; il Testosterone resta aperto, pare, grazie ai favori di qualche alto papavero, per motivi non specificati, con le intuibili relazioni di vassallaggio che Rao ben descrive ne Il mio ragazzo).

Sono il suo editore italiano, voglio vedere i luoghi descritti nel romanzo. Dentro, in un antro scuro che pare un centro sociale, con pochi tavolini e tanti ragazzi appoggiati alle pareti, i pochi che stanno ballando si ritraggono, al nostro ingresso. Raj mi chiede di aspettarlo e va a salutare qualcuno. In realtà, mi spiega, deve rassicurarli. Due ragazzini, con un po’ di trucco sugli occhi, mi si avvicinano con qualche moina. Rao mi dirà: sono molto pericolosi, anche violenti, il padrone non riesce a tenerli fuori dal locale.

Ballard a Singapore

Altro che esangui esistenze, come avevo intitolato un mio post due mesi fa. Singapore è il futuro.

Singapore, città stato di cinque milioni di abitanti, highways, grattacieli e quartieri residenziali, parchi giochi e casinò, acque, fuochi d’artificio, cielo sempre in movimento e stagioni immutabili, una eterna estate piovosa che non lascia traccia del suo passare.

Il giorno prima di partire ho incontrato il mio amico editore Fong Hoe Fang in un coffee-shop a Paya Lebar, sotto a un ufficio postale cilindrico contornato da ascensori a vista che salgono e scendono come navette spaziali.

Seduti al tavolino all’aperto, dopo la pioggia (e quindi con una luce molto favorevole, devo ammettere) io lo ascoltavo parlarmi dei suoi poeti e del progetto di portare la poesia contemporanea nelle scuole, su uno sfondo da cartoon: la stazione sopraelevata del metrò, il binario sopra i piloni, i treni in arrivo o in allontanamento davanti a una infilata di palazzi tutti uguali ma di colori diversi.

Il tutto circondato da altissime acacie a loro volta ricoperte di rampicanti. Pensavo, cos’è? Cos’è che mi attira di questo luogo per alcuni asfittico, per altri opprimente, e per molti semplicemente l’unica esistenza possibile al di là dell’emigrazione. E finalmente mi è venuto in mente Ballard.

J.G. Ballard, scrittore di fantascienze sociali che rappresentano qui un presente di ceto medio diffuso, tutto uguale, tutto egualmente percorso dalla paura di non farcela, di restarne tagliati fuori (per esempio: Condominium, Cocaine Nights, Super-Cannes). La piccola borghesia (cosmica), se ancora ha un senso questo termine in un mondo che come dice giustamente qualcuno, rischia di non avere altro all’infuori di sé.

Interrogato sul futuro Ballard rispondeva: questo è il mio timore, che il futuro sia un vasto e vuoto quartiere residenziale dell’anima. Ed eccolo qua: Singapore. Singapore che io proprio per questo adoro, perché è PURO, un esperimento sociale senza interferenze, senza vie di fuga per lo sguardo, senza possibilità di fraintenderlo, di disconoscere la nostra società e le nostre esistenze (esangui) per quel che sono.

A Ballard chiedevano: come è possibile che proprio tu, il cantore della violenza sottesa, dell’inespresso, del banale orrore quotidiano connaturato a questa condizione sociale, poi ti sia rintanato a vivere, appunto , in un banalissimo quartiere suburbano, residenziale, di una media cittadina inglese? E lui rispondeva: perché è qui che si gioca la partita. Questo è il luogo della lotta, dove questa gente si scontra giorno dopo giorno. È qui che lo si vede senza filtri.

Sono d’accordo: è un iniezione di verità, di solido terreno reale su cui poggiare i piedi. Singapore lista grigia, dove ancora fanno tappa alcuni tra i peggio capitali del globo. Singapore dove ciascuno ne ha una sua fettina, Singapore che teme e confina gli immigrati (più del 10% dei residenti) che fa lavorare nei suoi cantieri, lungo le nuove strade pagate dalla congestion charge. Leggete Carver, amici miei poeti di Singapore, leggete Cheever: quando, qui, un grande romanzo sul millennio suburbano?

Foto: hkfuey97

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