• Chi siamo

    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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  • Parlano di noi

    • Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra
    • E adesso? su Bnews (Università Bicocca)
    • Da L’uomo tigre, di Eka Kurniawan
    • A Yi e Chan Ho Kei su Alias
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Tutti i post su libri

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

Sono cresciuto non lontano da qui. Quand’ero ancora bambino, può darsi che i miei mi ci abbiano portato ad assistere a un funerale o due, ma solo molto più tardi ho cominciato a considerarlo il mio giardino, il mio bosco privato: un luogo incantato in cui ero libero di scorrazzare, di meravigliarmi a mio piacimento delle forme, degli odori e dei colori della natura, degli alberi, degli uccelli e dei magnifici cespugli, oltre che della distesa selvaggia delle rocce. Vicino alla sommità della collina dominano le torri tozze – tre –, con le fauci spalancate verso il cielo per permettere ai rapaci di scendere e pasteggiare a volontà, per poi levarsi di nuovo in volo indisturbati. Pur circondato da una città che diventa ogni giorno più rumorosa e popolata, questo appezzamento di terreno è così esteso e nascosto che nessuna attività o sillaba pronunciata da voce umana scalfisce la sua atmosfera pacifica. Anche se la morte è la ragione ultima della sua esistenza, in questo giardino la vita riporta una vittoria schiacciante.

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

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Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

A Lubok Sayong ci sentimmo quasi tutti sollevati quando le orde di volontari fecero fagotto per tornare al loro tran-tran quotidiano nella capitale. Nonostante avessero portato beni di prima necessità graditi come cibo e altre provviste, la loro intensa energia in quei pochi giorni di volontariato risultò per lo più sgradita. Eravamo stanchi. «Stanchi fino al midollo», disse qualcuno. Dopo i primi giorni deliranti dell’alluvione, le emozioni ribollivano. Il dinamismo frenetico e le banalità benintenzionate di quei volontari riuscirono solo a provocare risentimento tra gli abitanti, che avevano già i nervi a fior di pelle. In verità molti di noi preferivano l’aiuto pigro della polizia e dei pompieri. Con loro condividevamo le attese silenziose e una paziente tolleranza dell’inefficienza. Il nostro legame di comune disgrazia era un punto di partenza da cui poteva nascere l’amicizia. Invece da quelle persone le cui ciotole di riso stavano altrove ricevevamo solo la compassione che nasce da eventi eccezionali. Per quanto inespressa, la consapevolezza che le loro difficoltà erano temporanee influenzava inevitabilmente la buona volontà di quei volontari in trasferta.

Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

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Da Il mo ragazzo, di R. Raj Rao

Si avviarono. Una volta usciti dalla stazione, mentre aspettavano il verde alle strisce pedonali, Yudi prese al ragazzo la mano. Era fredda, nonostante la calura. Le dita sottili, ossute. Scarne, sgradevoli da stringere. Il ragazzo non la ritrasse e lasciò che Yudi gliela tenesse finché gli pareva. Per Yudi stare mano nella mano era un preliminare piacevole. Ogni volta che abbordava qualcuno, dava inizio a questo rituale molto prima di arrivare a casa. Tuttavia la maggior parte degli uomini sfilava la mano dopo qualche minuto, dicendo: «Ci guardano». Al che lui replicava facendo notare che erano in India, mica in America; gli adulti si tenevano per mano in segno d’amicizia. Ma i suoi partner rimanevano scettici. Alcuni continuavano a lasciarlo fare, ma solo per educazione. Ora, mentre si dirigevano all’appartamento della madre, Yudi si chiedeva a quale categoria appartenesse il ragazzo. Era una questione di educazione, oppure gli andava veramente di essere tenuto per mano da lui? All’improvviso si rese conto di non aver domandato al ragazzo come si chiamasse.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

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Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

In quella mattinata in cui tutto ronzava, la gente e il neon, pensai di aver già visto una di quelle persone. L’unico problema era che aveva un trucco pesante e la parrucca, e indossava un sari. Nell’equivoca scenografia della luce tremolante e della sinfonia di corvi, avevo finito per decidere che era un uomo. A un certo punto notai che le quattro figure indossavano tutte dei sari – quelli sintetici, da due soldi, che le puttane mettono quando non devono far colpo. Erano ancora lì all’entrata a lanciare i loro sguardi un-due-tre quando pensai di mostrarmi interessato e chiedere se volevano fare una telefonata. Ma prima che potessi calarmi nella parte del commerciante cortese, due di quelle «signore» avanzarono verso di me. Lanciandomi un’occhiata, una di loro mi disse: «Faccio un’urbana». «Prego», risposi io con gentilezza, fingendo di non essere per niente incuriosito dal loro aspetto. Avevano la barba di qualche giorno, ma i peli sulle mani erano accuratamente pettinati. Eunuchi, ecco cos’erano. Ma prima di tutto erano clienti e se non si mettevano a battere le mani, sculettare, alzare la sottana e chiedere soldi, non mi davano alcun fastidio.

Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

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Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

Quella sensazione Xiao Ding la conosce bene, è proprio sudore da sfinimento: è come trovarsi in un incubo leggero ma senza uscita, dai pori non riesce a venir fuori nemmeno una goccia di sudore vero e proprio. Si fa forza e infila un paio di stradine, e solo quando si ritrova all’ingresso di un vicolo si decide a sedersi a un chiosco che vende spaghetti. Il chiosco è composto semplicemente da un tavolo smilzo appoggiato alla parete e coperto da un foglio di plastica bianca: accanto al tavolo, nella confusione più totale, sono sparsi quattro o cinque tra seggiole e sgabelli quadrati, una alta e l’altro basso, una grande e uno piccolo.

Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

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L’uomo tigre finalista al Man Booker International Prize

Seminare scrittori: è possibile? Vederli crescere.

Quando partivo per l’Asia, anni fa, prima di stabilirmi a Pechino, qualcuno mi salutava augurando: buon raccolto! Avevo già pubblicato Ayu Utami, ero a Jakarta dove Metropoli d’Asia partecipava a un premio letterario, il Khatulistiwa, che però quell’anno non diede frutti. O almeno, a me non parvero all’altezza. Dissero: anno sfortunato. Risposi: e allora chi? E insistevo: un autore più giovane, in sintonia con i lettori più giovani. Domandavano: adatto al mercato europeo?

Mi indignavo, quasi. No! Io cerco i romanzi degli indonesiani, romanzi piantati nell’identità nuova di un paese, dentro alla sua mutazione profonda come tutta l’Asia. Insomma cosa piace qua? Chi ci sa raccontare qualcosa dell’Indonesia di oggi? Un pochino petulante, lì, nel ripetere che no, non voglio l’ambientazione storica, o il racconto delle tradizioni ancestrali. Che li apprezzo, certo, quei buoni romanzi, ma che per Metropoli d’Asia mi piace la contemporaneità.

Al di là del mestiere di editore, dicevo, mi interessa capire cosa si pensa e scrive e si legge qui, oggi, in queste megalopoli piene di traffico e di gente ormai simile a noi. Al macero l’esotismo. Datemi l’Asia dura, anche feroce, dell’oggi.

Lelaki Harimau, letteralmente l’Uomo Tigre, l’ho comprato il 28 novembre del 2010. E, accidenti, avevo in mano anche un secondo romanzo. Ma dovevamo rallentare, fare qualche libro di meno. Chiesi una proroga per il primo romanzo, non esercitai l’opzione sul secondo, e ormai mi sa che non ci arrivo più. E’ uscito, il nostro uomo tigre in italiano, nel gennaio dello scorso anno.

E nel frattempo, quest’Asia in timelapse ha accorciato le distanze con noi. Ci sono sempre più vicini, gli asiatici delle città, anche quando raccontano storie che sanno di favola, perché gli vivono nei polpastrelli, mentre battono sulle tastiere. E adesso arrivano, nelle longlist, sui nostri magazine, ai festival letterari. Portano il profumo di un Asia diversa, un’Asia le cui fatiche assomigliano alle nostre.

Congrats, Eka! E grazie.


Man Booker International Prize Longlist

Da Malesia Blues, di Brian Gomez

Terry cercò di non sospirare nel microfono.
«Mi spiace, non credo che si possano suonare i Deep Purple solo con la chitarra acustica. E comunque, certo non Smoke on the Water», spiegò.
«Ma cosa vai dicendo? Certo che si può», ribatté Joe. «Pam-pam-pam, pam-pam-papam», cantò mentre faceva fi nta di suonare il riff iniziale della canzone. Ormai era quasi sul palco.
Manca solo un giorno, si disse Terry. Un giorno solo e poi basta.

Da Malesia Blues, di Brian Gomez

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Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

Adesso che ho perfezionato la Sua arte, devo anche perfezionare le Sue sembianze. Il Suo modo di camminare, parlare, vestire. Mi rendo conto di aver trascurato questi aspetti realistici della Sua personalità nella mia narrazione, solo perché non sono particolari ai quali ho accesso. In vita mia non ho mai visto il vero Rushdie di persona nemmeno una volta. L’ho visto solo in televisione, sulla sovraccoperta dei Suoi libri, su quotidiani e riviste. Che posso farci? Quanto a faccia e capelli, ho il mio barbiere del quartiere Nana. Anche lui condivide la fi losofi a di Dio. È bugiardo quanto Lui. La realtà della nostra faccia è noiosa. Meglio trasformarsi in personaggi inventati, in fi gure di fantasia, diventare quello che non siamo. Solo così avremo il mondo intero ai nostri piedi. È come smettere di occuparsi di automobili e passare agli aerei.

Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao

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Da Le tre porte, di Han Han

Se qualcuno sta chiuso a lungo in un cesso, fi nisce per puzzare di piscio, per analogia, se si vive circondati dai libri, alla lunga si emana cultura. Il signor Lin si era costruito un ruolo senza studiare, aveva cominciato a mantenersi con la poesia, diventando poi un autore di fama nel distretto. I libri stipati nella sua casa gli servivano per darsi un tono, ma al loro contenuto non dava peso. Un giorno, Lin Yuxiang, quando era piccino, sgambettò in giro ripetendo: «Libri di merda, libri del cavolo, libri inutili». Le sue parole arrivarono all’orecchio del padre per bocca della madre, ma stravolte nel ritmo, un po’ come la traduzione dell’antichissimo Libro delle odi in una lingua straniera. Il padre le suonò di santa ragione al fi glio perché aveva vilipeso la cultura, ma all’epoca il povero Lin Yuxiang non sapeva cosa signifi casse la parola «vilipendere», fi guriamoci «cultura» e comprese solamente che aveva detto delle parolacce. Si prese una tale strizza che non osò più aprire il becco. Le volgarità pronunciate da Lin Yuxiang fecero balzare un’idea nella testa di suo padre che, risoluto a trasformare la merda in oro, lo obbligò a leggere e studiare tutti i giorni, per suo massimo godimento. I libri diventarono come i soldi: non aveva senso metterli da parte, era molto meglio farli usare al fi glio, in una sorta di concretizzazione dell’amore paterno.

Da Le tre porte, di Han Han

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Da Duplice delitto a Hong Kong, di Chan Ho Kei

Fissai il volante, leggermente stordito. Diedi un’occhiata all’orologio che avevo al polso e vidi che le lancette si trovavano tra le nove e le dieci. La sera prima non ero rientrato a casa? E dov’ero andato? Ero così stanco da essermi addormentato in macchina? Una fi tta mi percorse la fronte, come se mi avessero dato una martellata in testa. In realtà, la sensazione di dolore sembrava partire dal centro del cervello per poi propagarsi alle tempie. Avevo l’emicrania? O erano i postumi di una sbronza? Presi la giacca e la annusai: emanava un inconfondibile tanfo di alcol. La seconda opzione sembrava la più probabile. La sera prima dovevo aver bevuto come una spugna, perciò avevo deciso di non tornare a casa e di dormire in macchina. Aprii il vano portaoggetti, tirai fuori una scatola di aspirine e senza pensarci due volte ne mandai giù due così, senza neanche un po’ d’acqua. Dannazione, mi scoppiava la testa.

Da Duplice delitto a Hong Kong, di Chan Ho Kei

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