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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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L’India Unheard

Segnaliamo un interessante sito chiamato India Unheard. Qui si possono trovare una serie di video che raccontano storie raccolte da volontari.

I temi sono legati alle diverse minoranze presenti nel paese, con lo scopo di dar loro voce e visibilità. I filmati possono essere consultati per argomento o per stato, utilizzando il menu superiore.

Una sezione speciale è dedicata ai paria, i fuori casta. Si chiama Article 17, come l’articolo della Costituzione indiana che vieta la pratica dell’intoccabilità.

Scrivere dell’India

Segnaliamo un lungo e interessante articolo comparso sull‘Hindustan Times e dedicato alla scrittura in India. O meglio: alla scrittura sull’India e di come questa è cambiata nel corso dei secoli.

La linea di tendenza complessiva che emerge dall’analisi è che gli indiani sono stati sempre più capaci di scrivere su loro stessi, dando però nell’articolo anche conto del dibattito su quanto gli stranieri siano o meno legittimati a parlare dell’India.

Foto: Zonnelied

Un parco divertimenti “pirata”, in Cina

Che tutti i parchi tematici cerchino chi più chi meno di rifarsi al modello di Disneyland è cosa nota, così come che la Cina sia uno dei paesi con il più alto tasso di pirateria nel mondo.

Unendo queste due cose è venuto fuori World Joyland, che si trova vicino a Shanghai ed è stato definito “parco delle contraffazioni” perché ripropone in maniera sfacciata parti di architettura e tematizzazione prese da altri parti, compresi i personaggi e i gadget in vendita nei negozi (anche se poi, sempre di Made in China si tratta).

Foto: The Theme Park Guy

Una rivista, un intellettuale, una rivolta: da rivedere a Londra, domani

Ou Ning mi spaventa una sera a cena, dichiarandomi l’intenzione di cercare un incontro con Toni Negri quando visiterà Parigi, in aprile. Di tanti, proprio lui? Provo a spiegargli i danni (eufemismo) fatti nella seconda metà dei Settanta da questo ineffabile professore, che lasciò dietro di sé una scia di delitti e qualche migliaio di ragazzotti in galera, e si accomodò poi nella bellissima Parigi.

Gli dico anche: ecco, se devo fare un paragone, per la sua arroganza e violenza, per il disprezzo dell’avversario e per il fanatismo, Negri mi fa pensare alla vostra Rivoluzione Culturale: che fu ribellione contro la burocrazia, ma presa dal lato sbagliato (eufemismo).

Ou Ning (che come tanti nel mondo lesse Impero, bigino e instant book no global del professore, che mettendo in fila buoni pensieri elaborati da altri migliori di lui si vide così moltiplicata d’acchito la quota di mercato), mi capisce: certo, dice, prima di scrivere del presente, avrebbe dovuto “chiedere scusa per il passato” (locuzione che immagino sia una traduzione abborracciata nel suo inglese scarso del “fare autocritica” in cinese).

Perché la ribellione che cerca Ou Ning è sicuramente differente. La sua Chutzpah (qui c’è anche una sua buona biografia) è una rivista di letteratura pura, nonostante il nome (parola che in yiddish significa “insolente”, o “faccia tosta”, e che lui riproduce senza però una particolare vocazione alla storia dell’ebraismo: lo fa così, gli piace il termine).

Intende portare all’attenzione del pubblico (in parte internazionale perché al suo interno l’inserto Peregrine traduce ogni volta tre o quattro racconti in inglese, dei trenta che Chutzpah presenta in cinese) la generazione di quarantenni, a suo dire schiacciati tra i più vecchi nomi noti dell’editoria internazionale (ad esempio Mo Yan, e poi a cascata Yu Hua, Yan Lianke, Su Tong, Bi Feyu) e la generazione del giovanissimi, mezza sesso e rock and roll, mezza blog (tra parentesi, Ou Ning mi parla malissimo di Han Han, che secondo lui è una versione edulcorata del potere, un ribelle di facciata, e quando invece gli chiedono chi sia il migliore scrittore cinese contemporaneo dice senza esitazione: Zhu Wen! Come a dire: Metropoli d’Asia ha il meglio e il peggio).

La generazione che interessa a Ou Ning è quella nata nei primi settanta: la sua, che da giovanissima ha visto le timide aperture della censura nella seconda metà degli Ottanta, e si è poi schiantata contro la repressione di Piazza Tian an Men.

E questa generazione oggi osserva e rendiconta con favore ciò che si muove nel paese di mezzo, su tutte la ribellione di Wukan: una cittadina intera che scende in piazza contro la corruzione dei dirigenti di partito locali.

Ou Ning quindi, che è stato a Milano ospite del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, cerca incontri con i ribelli d’Europa (da un punto di vista intellettuale, certo): a Roma andrà al Teatro Valle Occupato, a Parigi s’è detto, a Milano Stefano Boeri gli promette un incontro coi Wu Ming che però non si realizza. Dopo il rush milanese, purtroppo, parte in fretta per Londra (e chi incontrerà laggiù?).

Io passo quindi qualcuna delle mie giornate a ruminare, in ritardo: ma chi avrei potuto presentargli, io? Cosa avrei potuto dirgli? Come indirizzarlo su intellettuali, scrittori, artisti consci del fatto che le ribellioni e le rivoluzioni comportano sempre un pericolo: non solo l’eterogenesi dei fini, ma banalmente la costruzione di leaderships orrende (i miei conoscenti fine anni Settanta in Italia si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che hanno sfiorato la criminalità politica e si sono adagiati su un proprio fallimento, e quelli che direttamente si impiegarono a Mediaset; schematizzzo, è ovvio: ma come si fa a fomentare una ribellione che in sé contenga i germi del meglio e non del peggio? This is the question). Discorso che vale per tutti i no Tav nostrani, e grillini, o chissà che.

Eppure lui, loro, gli elementi per starci attenti ce li hanno: appunto, la Rivoluzione Culturale, quando Mao diceva “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, e il risultato furono orrori e vite spezzate, in cambio di nuovi equilibri negli apparati dirigenti (tipo: un Berlusconi al posto di un Andreotti, un Bossi al posto di un Almirante o di un Toni Negri, magari un Di Pietro al posto di un D’Alema, e chissà cosa ci riserva l’oggi). Ou Ning, vorrei dirgli: perchè il rappresentante dei ribelli in Cina è stato Bo Xilai (oggi silurato), che dichiarava di rifarsi all’ortodossia maoista?

E di nuovo: chi gli faccio leggere? Chi gli faccio incontrare? Un manciata di nomi: Colin Ward, ma crederete mica che basti. E a Roma avrebbe potuto incontrare Pascale, Piccolo, quelli de Lo Straniero, forse. E sopratutto: io chi incontro? Chi si ribella sapendo nessuna Causa giustifica nessuna Schifezza, che le rivoluzioni non riguardano i fini, ma i mezzi? Ou Ning, questo potrebbe essere il vostro ruolo: prevedere e precedere la degenerazione dei movimenti, mettere in guardia fin d’ora.

Ma ora: pausa. Questo post poteva avere un altro incipit. Avrei scritto:

Ou Ning, a Pechino, una sera a cena mi racconta dei suoi anni ottanta. “Eravamo giovanissimi, e allora chi poteva viaggiare in Cina era fortunato. Se arrivava a Pechino qualcuno da Nanjing, passavamo le nottate a parlare di filosofia, di letteratura. Bevevamo. Alla fine ci conoscevamo tutti, poche centinaia di ragazzi usciti dalle università, ci sembrava che il futuro fosse a un passo. Il primo Deng Tsiao Ping aveva aperto il nostro paese: improvvisamente si discuteva senza paura.” Mi dice: si fumava tantissimo.

Quando provo a domandargli di Piazza Tian an Men, come al solito svicola. Fa finta di non sentire la domanda: l’ho capito, puoi essere ovunque, Pechino, Milano, o Singapore, puoi essere davanti a un pubblico con un microfono in mano o davanti a una salsiccia, io, lui, e la sua fidanzata, ma è sempre la stessa cosa: di quello non si parla. Criticare la Rivoluzione Culturale è possibile, e il potere, la corruzione, i singoli leader di partito, o la manutenzione ferroviaria e la distruzione dei generi alimentari. Ma silenzio sulle three T (Tian an Men, Tibet, Taiwan) one F (Falun Gong). E quando gli chiedo di Wukan, della rivolta di una cittadina intera, lui svicola: e, appunto, si finisce su Bo Xilai.

Insomma, ribelli con il limite: ribelli davvero.

Bello: questo sì un ponte tra l’Occidente e l’Oriente, loro e noi alle prese con una rivolta, e con la necessità di farle partire con il piede giusto, ciascuno con un passato che di riferimenti è pieno.

PS: Berardinelli sul domenicale del Sole24 la settimana scorsa, dentro a un articolo fortemente condivisibile, scriveva: in occidente oggi avremmo bisogno di un Lenin, o forse di un Ghandi. Hmm…: ma non dovremmo cercarci di meglio, noi e i cinesi?

PPS: con Ou Ning ci siamo dati appuntamento il più presto possibile, a Pechino. Sperando di trovarlo libero e non blindato…

E domani a Londra!

Foto: Alessandra Vinci

 

 

Giornalismo in Cina e giornalismo della Cina

Segnaliamo qualche esempio trovato nei giorni scorsi su diversi aspetti del giornalismo cinese. Il primo è quello dei corrispondenti dall’estero, che si trovano da un lato nella difficoltà sia di riuscire a capire veramente a fondo un paese così complicato, sia di riuscire a decidere cosa non scrivere, visto il moltiplicarsi di fonti a disposizione, non solo per Internet ma anche per il crescente numero di giornali commerciali.

A proposito di commercio è affari, c’è un altro spunto di analisi che riguarda la pratica in crescita di inserire nei giornali cinesi notizie a pagamento. Sembra inoltre che la cosa avvenga in modo abbastanza trasparente e con tariffe semi-ufficiali. Interessante notare però come ad esempio le compagnie statunitensi potrebbero violare le leggi anti-corruzione del proprio paese, che impediscono di fare “investimenti” di questo tipo all’estero.

C’è poi un fronte, per così dire, di “politica estera”. La Cina sta diventando una potenza anche sul fronte dell’informazione, aprendo con la sua agenzia di stampa governativa Xinhua e CCTV uffici in diverse città del mondo. Xinhua ha anche preso in affitto uno dei maxi-schermi in Times Square, dove trasmette tutto il giorno notizie dalla Cina e pubblicità. Si parla di nuova prospettiva e dal punto di vista del governo cinese è un’attività necessaria per bilanciare i pregiudizi degli occidentali.

Foto: William Ward

L’India dei conflitti

Venerdì scorso Internazionale ha tradotto e pubblicato un lungo articolo di Arundhati Roy da Outlook India, sull’India dei conflitti: da un lato le cinquanta famiglie più ricche del paese, dall’altro mezzo miliardo e passa di contadini poveri e abitanti degli slum, che dello sviluppo economico impetuoso beneficiano poco assai, divenendo invece le vittime delle frequenti espulsioni di massa, naturalmente senza indennizzi, da terreni che poi verranno sfruttati per l’estrazione mineraria o per la costruzione di impianti industriali: ed è vero, sì, che tutto ciò produce posti di lavoro e salari, ma sempre a lungo termine.

Insomma, non è certo che lo sviluppo vada a benificio dei ceti più poveri, di sicuro non in quest’India ostaggio delle oligarchie economiche. A parte l’utilizzo a piene mani del vocabolo “capitalismo” (che a me pare come se tutte le volte si ricordasse che gli umani respirano) la critica coglie nel segno.

E allora consiglio la lettura del suo ultimo libro (In marcia con i ribelli), uscito con Guanda: rispetto al nostro I miei luoghi di Annie Zaidi, i libri della Roy sono più sistematici, mentre Annie Zaidi resta magistralmente piu’ vicina all’oggetto del suo sguardo: dove la Roy spiega, la Zaidi splendidamente racconta, e ciascuno scelga a seconda delle sue preferenze, perché poi l’oggetto della ricerca è sempre lo stesso.

Una cosa mi piace segnalare dell’articolo di Arundhati Roy: anche lei sostiene che le polemiche sollevate attorno al Festival di Jaipur per il boicottaggio a Rushdie hanno avuto solo l’effetto di sottrarre l’attenzione del pubblico dai temi reali che al Festival si andavano trattando: l’India dei conflitti, appunto. E la polemica di Arundhati ha un bersaglio: molta della cultura indiana, e il Festival di Jaipur tra tutti, è vastamente sponsorizzata dai megagruppi indistriali indiani. A Jaipur perfino l’ufficio stampa del Festival aveva uno sponsor di tal fatta…

Insomma: agli amici che avevano criticato certi miei post da Jaipur, e molti tweet, nei quali io dicevo lo stesso (parliamo dell India, e non di Rushdie!) adesso posso dire: visto? Non sono il solo a pensarla cosi. Insomma: mi sento meglio.

A tutti dico: leggetevi Tehelka, che e sempre online: è cosi si che si capisce l’India.

Foto: Satish Krishnamurthy

Le voci dell’India

L’Hindustan Times dedica un approfondimento, segnalato da Breaking News India, su come sta cambiando il rapporto tra i cittadini e l’informazione nel paese. Come quasi ovunque nel mondo, con i social media che guadagnano terreno e superano i media tradizionali.

Nella seconda parte dell’articolo si presenta invece un esperimento per calcolare l’influenza che hanno alcuni personaggi celebri del paese attraverso i social network. I risultati sono a questo indirizzo e vedono ai primi posti compaiono soprattutto politici, seguiti dai nomi del cinema.

Foto: Poras Chaudhary

Informazioni, notizie, scrittura, racconto

Capisco quanto questi miei post abbiano a volte un passo che viene travolto da un andamento dello scambio di informazioni che letteralmente mi violenta, mi afferra e mi scaraventa altrove. E non è solo questione di vecchi media.

Recentemente, a Jaipur, intorno al caso Rushdie ho sbattuto il naso su Twitter, che pure MdA utilizza a piene mani, più per scelta “di marketing” che per mio desiderio diretto: insomma, si fa, si twitta, e allora restiamoci dentro anche noi. Quindi: decisione di provare una diretta twitter da Jaipur, con la sensazione di sentirmi esplodere l’hardware tra le mani.

Perché succede questo: che la mia percezione, la mia visione rasoterra del caso Rushdie, che si forma camminando sul prato e lungo i vialetti del Diggi Palace i primi giorni, incontrando scrittori, editori, giornalisti, e si forma assolutamente in diretta, non coincida con la percezione a posteriori, filtrata dalla cassa di risonanza dei media per così dire tradizionali.

Insomma, i primi giorni, dopo l’annuncio della rinuncia alla visita da parte di Rushdie, e perfino dopo l’interruzione (richiesta dagli organizzatori stessi del festival) della lettura di alcuni brani di I versi satanici iniziata per protesta da parte di quattro autori, avevo la netta sensazione che tutti volessero tenere i toni bassi, che sentissero l’argomento come distraente: l’ho già detto, in India i problemi, i fondamentalismi, i poteri, i massacri e le vite perdute sono tali e tante che ogni ‘operatore culturale’ a Jaipur sperava di poter andare oltre Rushdie, e di parlare semmai di quelli, attraverso i romanzi, i saggi, i reportage, le biografie.

La mia ingenuità è stata quella di pensare che Twitter potesse registrare questa sensazione (meglio: questa realtà dei fatti). E quando dico Twitter estendo la definizione a tutto il mondo della comunicazione in rete, quindi Facebook e i blog, anche quelli giornalistici, che vorrebbero rappresentare uno spazio di formazione della notizia diverso (appunto: con un altro passo), e invece secondo me non ci riescono.

È il Festival di Jaipur che è risultato violentato dalla notizia. Invano si è cercato di contestualizzare (ho apprezzato lo sforzo di qualche giornalista indiano di ricordare come un artista dal cognome musulmano, Husseini, sia stato di recente preso di mira dal fondamentalismo opposto, quello dominante in India, cioè quello induista). Gli organizzatori ne sono stati travolti, il loro tentativo di gettare acqua sul fuoco è stato successivamente scambiato per pompieraggio, sabotaggio della protesta.

Perché il caso è montato DOPO, il fatto. La notizia ha preso il sopravvento, è stata ripresa dai media internazionali (che viaggiano con il pilota automatico), ed è letteralmente esplosa nel momento in cui il fatto si stava sgonfiando, e a Jaipur si parlava sì di induismo e islam, o di politica e partiti, o di libertà di espressione, ma argomentando e dialogando, facendo riferimento all’India reale, vera: quella che si vede in modo chiaro tenendo lo sguardo rasoterra, a altezza d’uomo (ecco, a proposito: una volta si diceva: andare a passo d’uomo).

La delusione sta nel vedere come i cosiddetti “nuovi media” si siano adeguati piattamente a questo andamento, divenendo casse di risonanza de La Notizia. Altro che democrazia dell’informazione, pluralità delle voci.

E mentre io mi ritrovo oggi, finalmente, a conversare con partecipazione e interesse insieme a un editore locale e a un esperto indiano di letteratura bengali e a un sinologo italiano con una conoscenza straordinaria delle relazioni tra la cultura asiatica e quella europea, tra persone piacevoli, intelligenti, che mi dicono: è triste come 200 integralisti possano trascinare una nazione intera a parlare di loro. Mentre io ritorno nel mondo reale, qui a Kolkata, alla Fiera del libro, il dibattito sul caso Rushdie comincia a lievitare.

Non c’è niente da fare: se voglio restare col mio passo a raccontare l’Asia che vedo, dal basso, sguardo altezza uomo, bisogna che me ne resti lontano dalle notizie. Dai media vecchi e nuovi.

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere ai Cinesi

Questo servizio fotografico rende bene l’idea di come vivono la sessualità i giovani cinesi. Al contrario di quel che ci venne raccontato da scrittrici “scandalose” (Mian Mian e Zhou Wei Hui), i giovani cinesi ne hanno spesso una visione ingenua e naive.

Quantomeno, sono presenti molte diverse visioni. Per restare a Metropoli d’Asia, la storia d’amore e di disperazione raccontata da Zhu Wen in Se non è amore vero allora è spazzatura è ben lontana dallo stereotipo del sesso sfrenato, e il protagonista di Le Tre Porte di Han Han rimane, al contrario, confuso dai linguaggi della pubblicità e della moda che fanno della sessualità uno strumento del loro marketing.

Han Han e il sistema scolastico cinese

Una lettura che può essere interessante suggerire in questo periodo è un vecchio post di Han Han sull’abolizione dei temi scolastici, pubblicato nel 2008 in una raccolta di pezzi tratti dal suo blog, e tradotto in italiano da China-Files. Interessante perché in Le Tre Porte, il primo romanzo di Han Han uscito da qualche giorno in Italia pubblicato da Metropoli d’Asia, lo sfondo della narrazione è proprio nel sistema scolastico cinese.

Nella prima parte del post di Han Han sono evidenti alcune critiche a un sistema didattico che «non permette di esprimere le idee», ma la seconda parte è forse anche più gustosa nell’analizzare più in generale l’attività della scrittura (imposta) in rapporto alla lettura, «molto più utile di tanti temi scolastici che indeboliscono le capacità di scrittura e intervengono anche sul tuo subconscio».

Foto: Tricia Wang 王圣捷

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