Adesso che ho perfezionato la Sua arte, devo anche perfezionare le Sue sembianze. Il Suo modo di camminare, parlare, vestire. Mi rendo conto di aver trascurato questi aspetti realistici della Sua personalità nella mia narrazione, solo perché non sono particolari ai quali ho accesso. In vita mia non ho mai visto il vero Rushdie di persona nemmeno una volta. L’ho visto solo in televisione, sulla sovraccoperta dei Suoi libri, su quotidiani e riviste. Che posso farci? Quanto a faccia e capelli, ho il mio barbiere del quartiere Nana. Anche lui condivide la fi losofi a di Dio. È bugiardo quanto Lui. La realtà della nostra faccia è noiosa. Meglio trasformarsi in personaggi inventati, in fi gure di fantasia, diventare quello che non siamo. Solo così avremo il mondo intero ai nostri piedi. È come smettere di occuparsi di automobili e passare agli aerei.
Da Autobiografia di un indiano ignoto, di R. Raj Rao
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Da Le tre porte, di Han Han
Se qualcuno sta chiuso a lungo in un cesso, fi nisce per puzzare di piscio, per analogia, se si vive circondati dai libri, alla lunga si emana cultura. Il signor Lin si era costruito un ruolo senza studiare, aveva cominciato a mantenersi con la poesia, diventando poi un autore di fama nel distretto. I libri stipati nella sua casa gli servivano per darsi un tono, ma al loro contenuto non dava peso. Un giorno, Lin Yuxiang, quando era piccino, sgambettò in giro ripetendo: «Libri di merda, libri del cavolo, libri inutili». Le sue parole arrivarono all’orecchio del padre per bocca della madre, ma stravolte nel ritmo, un po’ come la traduzione dell’antichissimo Libro delle odi in una lingua straniera. Il padre le suonò di santa ragione al fi glio perché aveva vilipeso la cultura, ma all’epoca il povero Lin Yuxiang non sapeva cosa signifi casse la parola «vilipendere», fi guriamoci «cultura» e comprese solamente che aveva detto delle parolacce. Si prese una tale strizza che non osò più aprire il becco. Le volgarità pronunciate da Lin Yuxiang fecero balzare un’idea nella testa di suo padre che, risoluto a trasformare la merda in oro, lo obbligò a leggere e studiare tutti i giorni, per suo massimo godimento. I libri diventarono come i soldi: non aveva senso metterli da parte, era molto meglio farli usare al fi glio, in una sorta di concretizzazione dell’amore paterno.
Da Le tre porte, di Han Han
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Da Duplice delitto a Hong Kong, di Chan Ho Kei
Fissai il volante, leggermente stordito. Diedi un’occhiata all’orologio che avevo al polso e vidi che le lancette si trovavano tra le nove e le dieci. La sera prima non ero rientrato a casa? E dov’ero andato? Ero così stanco da essermi addormentato in macchina? Una fi tta mi percorse la fronte, come se mi avessero dato una martellata in testa. In realtà, la sensazione di dolore sembrava partire dal centro del cervello per poi propagarsi alle tempie. Avevo l’emicrania? O erano i postumi di una sbronza? Presi la giacca e la annusai: emanava un inconfondibile tanfo di alcol. La seconda opzione sembrava la più probabile. La sera prima dovevo aver bevuto come una spugna, perciò avevo deciso di non tornare a casa e di dormire in macchina. Aprii il vano portaoggetti, tirai fuori una scatola di aspirine e senza pensarci due volte ne mandai giù due così, senza neanche un po’ d’acqua. Dannazione, mi scoppiava la testa.
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Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun
Ora era tornato sull’argomento. Yang Zhi sputò a terra e gli rispose: «Prima mi fai cercare la gente e poi mi fai pagare il conto? Lo sai che basta un pranzo per capire la natura di un uomo?».
Lao Gan, con i soldi ancora in mano, ansimò: «Che discorsi! Dai, riprenditeli!».
Yang Zhi non gli badò e, con il marsupio in mano, stava per andarsene. Sul punto di uscire, prese da un tavolo un tovagliolo di carta per pulirsi la bocca e notò, vicino all’ingresso, la presenza di una donna magrolina seduta davanti a una ciotola di spaghetti in brodo di frattaglie. Non mangiava, era assorta a guardare i passanti fuori dalla finestra. Per strada avevano appena acceso i lampioni e la gente aveva affrettato il passo. Dopo aver camminato un po’, Yang Zhi cercò in tasca le sigarette e si accorse di averle lasciate alla trattoria. Pensò che non valeva la pena tornare indietro e comprò un altro pacchetto a una bancarella, lo aprì, tirò fuori una sigaretta e se l’accese, continuando a camminare. La donna della trattoria lo aveva seguito e gli si accostò.
Da Oggetti smarriti, di Liu Zhenyun
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Da I miei luoghi, di Annie Zaidi
Ma un conto era immaginare di incontrare degli assassini; farlo davvero era un altro paio di maniche. Durante la riunione di redazione, quando la mia proposta venne approvata e mi trovai di fronte alla possibilità concreta di partire per scrivere un reportage sui famigerati dacoits del Chambal, mi sentii mancare. Ormai, però, non c’era modo di tirarsi indietro.
Perciò presi il treno per Gwalior; si scoprì che era uno Shatabdi (da Delhi a Bhopal), un treno ad alta velocità. Cominciai a chiedermi se non fosse buon segno. In fondo, avevo visto la mia prima dacoit – Phoolan Devi in persona – proprio a bordo di uno Shatabdi. Che ne avessi preso un altro sembrava una bizzarra coincidenza: lasciava forse intendere in qualche modo che avrei incontrato la sfuggente e sanguinaria banda dei Gadariya già alla prima spedizione nella terra dei banditi?
Da I miei luoghi. A spasso con i banditi e altre storie vere, di Annie Zaidi
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Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag
L’altra ragione del pessimo umore di Marisa aveva l’aspetto della scarmigliata figura maschile distesa sul letto dall’altra parte del vetro, a meno di un metro da lei: il suo amante da favola con il quale non voleva più stare. Erano passati sei mesi da quando aveva deciso di lasciarlo e ancora non aveva fatto un passo avanti. Aveva acceso incensi e candele in tanti templi diversi, chiedendo il coraggio di affrontarlo ma, ogni volta che se ne era presentata l’occasione, si era tirata indietro. Quella notte pareva fosse la conclusione perfetta, il momento della verità dopo che il film era terminato e il loro progetto comune giunto a compimento. La tempistica aveva un senso.
Da Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag
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Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha
Ogni tanto la sua memoria faceva cilecca, eppure – stranamente – ricordava quella scena nei minimi dettagli. Ricordava quel ragazzino dall’aria adulta che si congratulava con lei con aria compiaciuta e che, nel frattempo, le porgeva la fatidica prima sigaretta. Al primo tiro aveva cominciato a tossire, non perché il fumo le fosse andato di traverso, ma semplicemente perché, essendo per lei la prima volta, le sembrava la reazione più adatta alla circostanza. I compagni avevano riso della sua goffaggine e, finite le loro “bionde”, avevano gettato i mozziconi nel punto in cui scorreva l’acqua di scarico. Dopo di che erano rimontati tutti sulle bici ed erano tornati a casa.
Da L’impero delle luci, di Kim Young-ha
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Da Verso Nord. unonoveottootto, di Han Han
Dopo il servizio completo si infila svelta i vestiti. Le domando come abbia fatto a sapere del mio arrivo così tempestivamente.
Mi spiega: «Non sono proprio andata a dormire, devi sapere che qui grosso modo saremo oltre trenta professioniste e si fermano solo camionisti, gente di passaggio, quindi nessuna ha clienti fissi. Se aspetto che la titolare suoni il campanello sto fresca, perciò mi do da fare e sto all’erta mentre le altre ronfano. Appena sento un cliente che entra in camera vado a bussargli. In genere, nel cuore della notte nessuno pretende di cambiare ragazza. Io sono poco richiesta perché certi, soprattutto quelli del Guangdong, sono fissati con i numeri fortunati, le più gettonate sono la otto e la diciotto. Io ho un numero insignificante e mi tocca arrangiarmi. Se tornerai, chiedi direttamente di me».
Commento: «Se fossero tutti efficienti come te, sarebbe una meraviglia. Che numero hai?»
«Sono la trentotto».
«Beh», faccio io, «continuerò a chiamarti Shanshan. Perché non cambi numero, Shanshan?»
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Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon
Quel giorno Jianxiong era arrivato presto, nell’atelier non c’era ancora nessuno. Posò il suo materiale e rimase in piedi fuori, accanto alla ringhiera, a fumare con gli occhi fissi sul furgoncino parcheggiato di fronte. Stava ancora rimuginando sulla discussione che aveva avuto la sera prima con Weihua. Quella settimana lo aveva incontrato due volte e si era un po’ pentito di avergli comunicato la sua decisione; era stato troppo precipitoso. Weihua gli aveva detto che sarebbe tornato per parlargli dopo un paio di giorni, ma lui era agitato e confuso, sentiva di non essere ancora pronto psicologicamente. E quando mai lo sarebbe stato?
Da L’atelier, di Yeng Pway Ngon
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Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
Quando ho ucciso l’ultima volta? Sarà stato venticinque anni fa… o forse no. Ventisei. Non ero spinto a farlo da un banale impulso omicida, né tantomeno da una perversione di natura sessuale. No. Mi spingeva l’amara consapevolezza di non essere mai stato in grado di assaporare un piacere perfetto. Meglio: mi spingeva il desiderio di poterlo finalmente gustare una volta per tutte. «So che puoi fare di meglio», mi ripetevo ogni volta che seppellivo una nuova vittima. E me lo sono ripetuto finché, a un certo punto, quella speranza ha smesso di pulsarmi dentro.
Da Memorie di un assassino, di Kim Young-ha
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