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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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    • A Yi e Chan Ho Kei su Alias
    • Ayu Utami su Alias
    • L’impero delle luci segnalato su Internazionale
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Da dollari la mia passione, di Zhu Wen

«Battutine su di me, vero? Vi ho sentiti!».
No, no, si affretta a ribattere mio padre spostando il sedere verso il muro, perché lei gli si è seduta praticamente in braccio. Io intanto prendo un bicchiere dal tavolo vicino e ne riempio di birra una buona metà.
«Il mio capo ha appena cantato le tue lodi, non puoi non bere un bicchiere con lui».
«Davvero?». Senza farsi minimamente pregare, alza il bicchiere e brinda con mio padre, che però si mantiene piuttosto sulle sue. Dal suo sguardo mi rendo conto che non riesce ancora a vederla come una donna da portare a letto, ma che probabilmente la considera come una delle compagne di scuola di sua figlia.
«Certo che è vero! Ha detto che sei molto bella, signorina, e che vorrebbe invitarti a ballare stasera».
«Davvero?», ripete lei, guardando prima me e poi mio padre.
«Di dove sei?», chiede inaspettatamente lui.
«Dell’Anhui».
«Lo conosco bene, l’Anhui. Di che parte dell’Anhui?»
«Perché vuol saperlo? Di Chaohu, comunque».
«Chaohu, ci sono stato! Di che zona di Chaohu?».
Non ho idea di che cosa abbia in mente mio padre con quelle domande idiote, perciò lo interrompo.
«Allora cosa ne pensi? Sei libera stasera? Passo a prenderti io, per conto del mio capo».
«Per far che?»
«Per far che? Davvero non ci arrivi o fai solo finta? Per passare la serata».

Da Dollari la mia passione, di Zhu Wen

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Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

Ad ogni modo, se i potenziali clienti reagiscono alle mie provocazioni, la telefonata si allunga. Loro provano un piacevole senso di sollievo. Quando penso sia arrivato il momento opportuno, insinuo nella conversazione domande a bruciapelo come: «Se tuo padre si comporta così, perché non lo uccidi?». Se il mio interlocutore si scandalizza, ritiro tutto e fingo che si sia trattato di una battuta. Se invece non riattacca, significa che tutto sommato non disdegna la mia soluzione. Sia chiaro: non intendo istigare nessuno a commettere un omicidio; questa provocazione è solo un test che mi permette di giudicare se le intenzioni di quella persona fanno al caso mio. Non sono alla ricerca di potenziali assassini. Il mio obiettivo invece è riesumare i desideri che gli individui hanno inconsapevolmente sepolto in un luogo nascosto della loro anima. Una volta fatti emergere, quei desideri cominciano ad autoalimentarsi. L’immaginazione spicca il volo e alla fine le persone scoprono da sole di avere le carte in regola per poter diventare mie clienti.

Da Ho il diritto di distruggermi, di Kim Young-ha

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Annie Zaidi racconta il Gange su D – la Repubblica

In un reportage sul Gange a firma di Annie Zaidi e pubblicato da D – la Repubblica delle donne, l’autrice con Metropoli d’Asia di I miei luoghi offre un viaggio poetico e autobiografico lungo il principale fiume indiano, essendo inoltre lei nata ad Allahabad, città di confluenza tra il Gange e lo Yamuna.

Annie Zaidi ricorda anche come nel maggiore poema epico indiano, il Mahābhārata, i due fiumi fossero rappresentati da due dee, Ganga e Yami. Nella seconda parte dell’articolo l’autrice si sofferma sui rischi che corrono i due fiumi per via dell’inquinamento.

Nella seconda parte del reportage, un articolo di Raimondo Bultrini racconta proprio questo aspetto, parlando delle grandi proposte politiche allo studio in questo periodo per pulire il fiume, ma anche dei rischi di corruzione collegati alle grandi opere.

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

Sono cresciuto non lontano da qui. Quand’ero ancora bambino, può darsi che i miei mi ci abbiano portato ad assistere a un funerale o due, ma solo molto più tardi ho cominciato a considerarlo il mio giardino, il mio bosco privato: un luogo incantato in cui ero libero di scorrazzare, di meravigliarmi a mio piacimento delle forme, degli odori e dei colori della natura, degli alberi, degli uccelli e dei magnifici cespugli, oltre che della distesa selvaggia delle rocce. Vicino alla sommità della collina dominano le torri tozze – tre –, con le fauci spalancate verso il cielo per permettere ai rapaci di scendere e pasteggiare a volontà, per poi levarsi di nuovo in volo indisturbati. Pur circondato da una città che diventa ogni giorno più rumorosa e popolata, questo appezzamento di terreno è così esteso e nascosto che nessuna attività o sillaba pronunciata da voce umana scalfisce la sua atmosfera pacifica. Anche se la morte è la ragione ultima della sua esistenza, in questo giardino la vita riporta una vittoria schiacciante.

Da Le torri del silenzio, di Cyrus Mistry

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Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

A Lubok Sayong ci sentimmo quasi tutti sollevati quando le orde di volontari fecero fagotto per tornare al loro tran-tran quotidiano nella capitale. Nonostante avessero portato beni di prima necessità graditi come cibo e altre provviste, la loro intensa energia in quei pochi giorni di volontariato risultò per lo più sgradita. Eravamo stanchi. «Stanchi fino al midollo», disse qualcuno. Dopo i primi giorni deliranti dell’alluvione, le emozioni ribollivano. Il dinamismo frenetico e le banalità benintenzionate di quei volontari riuscirono solo a provocare risentimento tra gli abitanti, che avevano già i nervi a fior di pelle. In verità molti di noi preferivano l’aiuto pigro della polizia e dei pompieri. Con loro condividevamo le attese silenziose e una paziente tolleranza dell’inefficienza. Il nostro legame di comune disgrazia era un punto di partenza da cui poteva nascere l’amicizia. Invece da quelle persone le cui ciotole di riso stavano altrove ricevevamo solo la compassione che nasce da eventi eccezionali. Per quanto inespressa, la consapevolezza che le loro difficoltà erano temporanee influenzava inevitabilmente la buona volontà di quei volontari in trasferta.

Da La somma delle nostre follie, di Shih-Li Kow

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Da Il mo ragazzo, di R. Raj Rao

Si avviarono. Una volta usciti dalla stazione, mentre aspettavano il verde alle strisce pedonali, Yudi prese al ragazzo la mano. Era fredda, nonostante la calura. Le dita sottili, ossute. Scarne, sgradevoli da stringere. Il ragazzo non la ritrasse e lasciò che Yudi gliela tenesse finché gli pareva. Per Yudi stare mano nella mano era un preliminare piacevole. Ogni volta che abbordava qualcuno, dava inizio a questo rituale molto prima di arrivare a casa. Tuttavia la maggior parte degli uomini sfilava la mano dopo qualche minuto, dicendo: «Ci guardano». Al che lui replicava facendo notare che erano in India, mica in America; gli adulti si tenevano per mano in segno d’amicizia. Ma i suoi partner rimanevano scettici. Alcuni continuavano a lasciarlo fare, ma solo per educazione. Ora, mentre si dirigevano all’appartamento della madre, Yudi si chiedeva a quale categoria appartenesse il ragazzo. Era una questione di educazione, oppure gli andava veramente di essere tenuto per mano da lui? All’improvviso si rese conto di non aver domandato al ragazzo come si chiamasse.

Da Il mio ragazzo, di R. Raj Rao

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Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

In quella mattinata in cui tutto ronzava, la gente e il neon, pensai di aver già visto una di quelle persone. L’unico problema era che aveva un trucco pesante e la parrucca, e indossava un sari. Nell’equivoca scenografia della luce tremolante e della sinfonia di corvi, avevo finito per decidere che era un uomo. A un certo punto notai che le quattro figure indossavano tutte dei sari – quelli sintetici, da due soldi, che le puttane mettono quando non devono far colpo. Erano ancora lì all’entrata a lanciare i loro sguardi un-due-tre quando pensai di mostrarmi interessato e chiedere se volevano fare una telefonata. Ma prima che potessi calarmi nella parte del commerciante cortese, due di quelle «signore» avanzarono verso di me. Lanciandomi un’occhiata, una di loro mi disse: «Faccio un’urbana». «Prego», risposi io con gentilezza, fingendo di non essere per niente incuriosito dal loro aspetto. Avevano la barba di qualche giorno, ma i peli sulle mani erano accuratamente pettinati. Eunuchi, ecco cos’erano. Ma prima di tutto erano clienti e se non si mettevano a battere le mani, sculettare, alzare la sottana e chiedere soldi, non mi davano alcun fastidio.

Da Il giardino delle delizie terrene, di Indrajit Hazra

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Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

Quella sensazione Xiao Ding la conosce bene, è proprio sudore da sfinimento: è come trovarsi in un incubo leggero ma senza uscita, dai pori non riesce a venir fuori nemmeno una goccia di sudore vero e proprio. Si fa forza e infila un paio di stradine, e solo quando si ritrova all’ingresso di un vicolo si decide a sedersi a un chiosco che vende spaghetti. Il chiosco è composto semplicemente da un tavolo smilzo appoggiato alla parete e coperto da un foglio di plastica bianca: accanto al tavolo, nella confusione più totale, sono sparsi quattro o cinque tra seggiole e sgabelli quadrati, una alta e l’altro basso, una grande e uno piccolo.

Da Se non è amore vero allora è spazzatura, di Zhu Wen

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L’uomo tigre finalista al Man Booker International Prize

Seminare scrittori: è possibile? Vederli crescere.

Quando partivo per l’Asia, anni fa, prima di stabilirmi a Pechino, qualcuno mi salutava augurando: buon raccolto! Avevo già pubblicato Ayu Utami, ero a Jakarta dove Metropoli d’Asia partecipava a un premio letterario, il Khatulistiwa, che però quell’anno non diede frutti. O almeno, a me non parvero all’altezza. Dissero: anno sfortunato. Risposi: e allora chi? E insistevo: un autore più giovane, in sintonia con i lettori più giovani. Domandavano: adatto al mercato europeo?

Mi indignavo, quasi. No! Io cerco i romanzi degli indonesiani, romanzi piantati nell’identità nuova di un paese, dentro alla sua mutazione profonda come tutta l’Asia. Insomma cosa piace qua? Chi ci sa raccontare qualcosa dell’Indonesia di oggi? Un pochino petulante, lì, nel ripetere che no, non voglio l’ambientazione storica, o il racconto delle tradizioni ancestrali. Che li apprezzo, certo, quei buoni romanzi, ma che per Metropoli d’Asia mi piace la contemporaneità.

Al di là del mestiere di editore, dicevo, mi interessa capire cosa si pensa e scrive e si legge qui, oggi, in queste megalopoli piene di traffico e di gente ormai simile a noi. Al macero l’esotismo. Datemi l’Asia dura, anche feroce, dell’oggi.

Lelaki Harimau, letteralmente l’Uomo Tigre, l’ho comprato il 28 novembre del 2010. E, accidenti, avevo in mano anche un secondo romanzo. Ma dovevamo rallentare, fare qualche libro di meno. Chiesi una proroga per il primo romanzo, non esercitai l’opzione sul secondo, e ormai mi sa che non ci arrivo più. E’ uscito, il nostro uomo tigre in italiano, nel gennaio dello scorso anno.

E nel frattempo, quest’Asia in timelapse ha accorciato le distanze con noi. Ci sono sempre più vicini, gli asiatici delle città, anche quando raccontano storie che sanno di favola, perché gli vivono nei polpastrelli, mentre battono sulle tastiere. E adesso arrivano, nelle longlist, sui nostri magazine, ai festival letterari. Portano il profumo di un Asia diversa, un’Asia le cui fatiche assomigliano alle nostre.

Congrats, Eka! E grazie.


Man Booker International Prize Longlist

Da Malesia Blues, di Brian Gomez

Terry cercò di non sospirare nel microfono.
«Mi spiace, non credo che si possano suonare i Deep Purple solo con la chitarra acustica. E comunque, certo non Smoke on the Water», spiegò.
«Ma cosa vai dicendo? Certo che si può», ribatté Joe. «Pam-pam-pam, pam-pam-papam», cantò mentre faceva fi nta di suonare il riff iniziale della canzone. Ormai era quasi sul palco.
Manca solo un giorno, si disse Terry. Un giorno solo e poi basta.

Da Malesia Blues, di Brian Gomez

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melching.stella@mailxu.com freehoffer_perry@mailxu.com cantinfelisa@mailxu.com