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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Zhu Wen

Zhu Wen mi aveva accolto con molti onori. Arrivato a Pechino per la mia prima volta, io ero l’unico editore straniero che avesse deciso di tradurre e pubblicare Dollari la mia Passione (ci fu anche un’edizione francese, ma solo un paio d’anni dopo: Metropoli d’Asia apriva la strada).

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I miei luoghi su Indian words

I miei luoghi, di Annie Zaidi, sul sito Indian words.

I luoghi di Annie Zaidi sono i luoghi di un’India un po’ insolita, di un’India meno conosciuta e meno urbana di quella di cui di solito leggiamo.
Il Punjab, il Madhya Pradesh delle popolazioni tribali, il Chambal dei banditi.
Ma il pregio di questo reportage è quello di essere un viaggio molto personale in questi luoghi, che unisce l’abilità di una giovane giornalista indiana a una forte partecipazione emotiva, senza mai nascondere (né ostentare) una certa fragilità.
A differenza di altri reporter, che pure mi piacciono, qui mancano – finalmente – l’eroismo da una parte e la finta modestia dall’altra.

Una rivista, un intellettuale, una rivolta: da rivedere a Londra, domani

Ou Ning mi spaventa una sera a cena, dichiarandomi l’intenzione di cercare un incontro con Toni Negri quando visiterà Parigi, in aprile. Di tanti, proprio lui? Provo a spiegargli i danni (eufemismo) fatti nella seconda metà dei Settanta da questo ineffabile professore, che lasciò dietro di sé una scia di delitti e qualche migliaio di ragazzotti in galera, e si accomodò poi nella bellissima Parigi.

Gli dico anche: ecco, se devo fare un paragone, per la sua arroganza e violenza, per il disprezzo dell’avversario e per il fanatismo, Negri mi fa pensare alla vostra Rivoluzione Culturale: che fu ribellione contro la burocrazia, ma presa dal lato sbagliato (eufemismo).

Ou Ning (che come tanti nel mondo lesse Impero, bigino e instant book no global del professore, che mettendo in fila buoni pensieri elaborati da altri migliori di lui si vide così moltiplicata d’acchito la quota di mercato), mi capisce: certo, dice, prima di scrivere del presente, avrebbe dovuto “chiedere scusa per il passato” (locuzione che immagino sia una traduzione abborracciata nel suo inglese scarso del “fare autocritica” in cinese).

Perché la ribellione che cerca Ou Ning è sicuramente differente. La sua Chutzpah (qui c’è anche una sua buona biografia) è una rivista di letteratura pura, nonostante il nome (parola che in yiddish significa “insolente”, o “faccia tosta”, e che lui riproduce senza però una particolare vocazione alla storia dell’ebraismo: lo fa così, gli piace il termine).

Intende portare all’attenzione del pubblico (in parte internazionale perché al suo interno l’inserto Peregrine traduce ogni volta tre o quattro racconti in inglese, dei trenta che Chutzpah presenta in cinese) la generazione di quarantenni, a suo dire schiacciati tra i più vecchi nomi noti dell’editoria internazionale (ad esempio Mo Yan, e poi a cascata Yu Hua, Yan Lianke, Su Tong, Bi Feyu) e la generazione del giovanissimi, mezza sesso e rock and roll, mezza blog (tra parentesi, Ou Ning mi parla malissimo di Han Han, che secondo lui è una versione edulcorata del potere, un ribelle di facciata, e quando invece gli chiedono chi sia il migliore scrittore cinese contemporaneo dice senza esitazione: Zhu Wen! Come a dire: Metropoli d’Asia ha il meglio e il peggio).

La generazione che interessa a Ou Ning è quella nata nei primi settanta: la sua, che da giovanissima ha visto le timide aperture della censura nella seconda metà degli Ottanta, e si è poi schiantata contro la repressione di Piazza Tian an Men.

E questa generazione oggi osserva e rendiconta con favore ciò che si muove nel paese di mezzo, su tutte la ribellione di Wukan: una cittadina intera che scende in piazza contro la corruzione dei dirigenti di partito locali.

Ou Ning quindi, che è stato a Milano ospite del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina, cerca incontri con i ribelli d’Europa (da un punto di vista intellettuale, certo): a Roma andrà al Teatro Valle Occupato, a Parigi s’è detto, a Milano Stefano Boeri gli promette un incontro coi Wu Ming che però non si realizza. Dopo il rush milanese, purtroppo, parte in fretta per Londra (e chi incontrerà laggiù?).

Io passo quindi qualcuna delle mie giornate a ruminare, in ritardo: ma chi avrei potuto presentargli, io? Cosa avrei potuto dirgli? Come indirizzarlo su intellettuali, scrittori, artisti consci del fatto che le ribellioni e le rivoluzioni comportano sempre un pericolo: non solo l’eterogenesi dei fini, ma banalmente la costruzione di leaderships orrende (i miei conoscenti fine anni Settanta in Italia si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che hanno sfiorato la criminalità politica e si sono adagiati su un proprio fallimento, e quelli che direttamente si impiegarono a Mediaset; schematizzzo, è ovvio: ma come si fa a fomentare una ribellione che in sé contenga i germi del meglio e non del peggio? This is the question). Discorso che vale per tutti i no Tav nostrani, e grillini, o chissà che.

Eppure lui, loro, gli elementi per starci attenti ce li hanno: appunto, la Rivoluzione Culturale, quando Mao diceva “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, e il risultato furono orrori e vite spezzate, in cambio di nuovi equilibri negli apparati dirigenti (tipo: un Berlusconi al posto di un Andreotti, un Bossi al posto di un Almirante o di un Toni Negri, magari un Di Pietro al posto di un D’Alema, e chissà cosa ci riserva l’oggi). Ou Ning, vorrei dirgli: perchè il rappresentante dei ribelli in Cina è stato Bo Xilai (oggi silurato), che dichiarava di rifarsi all’ortodossia maoista?

E di nuovo: chi gli faccio leggere? Chi gli faccio incontrare? Un manciata di nomi: Colin Ward, ma crederete mica che basti. E a Roma avrebbe potuto incontrare Pascale, Piccolo, quelli de Lo Straniero, forse. E sopratutto: io chi incontro? Chi si ribella sapendo nessuna Causa giustifica nessuna Schifezza, che le rivoluzioni non riguardano i fini, ma i mezzi? Ou Ning, questo potrebbe essere il vostro ruolo: prevedere e precedere la degenerazione dei movimenti, mettere in guardia fin d’ora.

Ma ora: pausa. Questo post poteva avere un altro incipit. Avrei scritto:

Ou Ning, a Pechino, una sera a cena mi racconta dei suoi anni ottanta. “Eravamo giovanissimi, e allora chi poteva viaggiare in Cina era fortunato. Se arrivava a Pechino qualcuno da Nanjing, passavamo le nottate a parlare di filosofia, di letteratura. Bevevamo. Alla fine ci conoscevamo tutti, poche centinaia di ragazzi usciti dalle università, ci sembrava che il futuro fosse a un passo. Il primo Deng Tsiao Ping aveva aperto il nostro paese: improvvisamente si discuteva senza paura.” Mi dice: si fumava tantissimo.

Quando provo a domandargli di Piazza Tian an Men, come al solito svicola. Fa finta di non sentire la domanda: l’ho capito, puoi essere ovunque, Pechino, Milano, o Singapore, puoi essere davanti a un pubblico con un microfono in mano o davanti a una salsiccia, io, lui, e la sua fidanzata, ma è sempre la stessa cosa: di quello non si parla. Criticare la Rivoluzione Culturale è possibile, e il potere, la corruzione, i singoli leader di partito, o la manutenzione ferroviaria e la distruzione dei generi alimentari. Ma silenzio sulle three T (Tian an Men, Tibet, Taiwan) one F (Falun Gong). E quando gli chiedo di Wukan, della rivolta di una cittadina intera, lui svicola: e, appunto, si finisce su Bo Xilai.

Insomma, ribelli con il limite: ribelli davvero.

Bello: questo sì un ponte tra l’Occidente e l’Oriente, loro e noi alle prese con una rivolta, e con la necessità di farle partire con il piede giusto, ciascuno con un passato che di riferimenti è pieno.

PS: Berardinelli sul domenicale del Sole24 la settimana scorsa, dentro a un articolo fortemente condivisibile, scriveva: in occidente oggi avremmo bisogno di un Lenin, o forse di un Ghandi. Hmm…: ma non dovremmo cercarci di meglio, noi e i cinesi?

PPS: con Ou Ning ci siamo dati appuntamento il più presto possibile, a Pechino. Sperando di trovarlo libero e non blindato…

E domani a Londra!

Foto: Alessandra Vinci

 

 

Giornalismo in Cina e giornalismo della Cina

Segnaliamo qualche esempio trovato nei giorni scorsi su diversi aspetti del giornalismo cinese. Il primo è quello dei corrispondenti dall’estero, che si trovano da un lato nella difficoltà sia di riuscire a capire veramente a fondo un paese così complicato, sia di riuscire a decidere cosa non scrivere, visto il moltiplicarsi di fonti a disposizione, non solo per Internet ma anche per il crescente numero di giornali commerciali.

A proposito di commercio è affari, c’è un altro spunto di analisi che riguarda la pratica in crescita di inserire nei giornali cinesi notizie a pagamento. Sembra inoltre che la cosa avvenga in modo abbastanza trasparente e con tariffe semi-ufficiali. Interessante notare però come ad esempio le compagnie statunitensi potrebbero violare le leggi anti-corruzione del proprio paese, che impediscono di fare “investimenti” di questo tipo all’estero.

C’è poi un fronte, per così dire, di “politica estera”. La Cina sta diventando una potenza anche sul fronte dell’informazione, aprendo con la sua agenzia di stampa governativa Xinhua e CCTV uffici in diverse città del mondo. Xinhua ha anche preso in affitto uno dei maxi-schermi in Times Square, dove trasmette tutto il giorno notizie dalla Cina e pubblicità. Si parla di nuova prospettiva e dal punto di vista del governo cinese è un’attività necessaria per bilanciare i pregiudizi degli occidentali.

Foto: William Ward

L’India dei conflitti

Venerdì scorso Internazionale ha tradotto e pubblicato un lungo articolo di Arundhati Roy da Outlook India, sull’India dei conflitti: da un lato le cinquanta famiglie più ricche del paese, dall’altro mezzo miliardo e passa di contadini poveri e abitanti degli slum, che dello sviluppo economico impetuoso beneficiano poco assai, divenendo invece le vittime delle frequenti espulsioni di massa, naturalmente senza indennizzi, da terreni che poi verranno sfruttati per l’estrazione mineraria o per la costruzione di impianti industriali: ed è vero, sì, che tutto ciò produce posti di lavoro e salari, ma sempre a lungo termine.

Insomma, non è certo che lo sviluppo vada a benificio dei ceti più poveri, di sicuro non in quest’India ostaggio delle oligarchie economiche. A parte l’utilizzo a piene mani del vocabolo “capitalismo” (che a me pare come se tutte le volte si ricordasse che gli umani respirano) la critica coglie nel segno.

E allora consiglio la lettura del suo ultimo libro (In marcia con i ribelli), uscito con Guanda: rispetto al nostro I miei luoghi di Annie Zaidi, i libri della Roy sono più sistematici, mentre Annie Zaidi resta magistralmente piu’ vicina all’oggetto del suo sguardo: dove la Roy spiega, la Zaidi splendidamente racconta, e ciascuno scelga a seconda delle sue preferenze, perché poi l’oggetto della ricerca è sempre lo stesso.

Una cosa mi piace segnalare dell’articolo di Arundhati Roy: anche lei sostiene che le polemiche sollevate attorno al Festival di Jaipur per il boicottaggio a Rushdie hanno avuto solo l’effetto di sottrarre l’attenzione del pubblico dai temi reali che al Festival si andavano trattando: l’India dei conflitti, appunto. E la polemica di Arundhati ha un bersaglio: molta della cultura indiana, e il Festival di Jaipur tra tutti, è vastamente sponsorizzata dai megagruppi indistriali indiani. A Jaipur perfino l’ufficio stampa del Festival aveva uno sponsor di tal fatta…

Insomma: agli amici che avevano criticato certi miei post da Jaipur, e molti tweet, nei quali io dicevo lo stesso (parliamo dell India, e non di Rushdie!) adesso posso dire: visto? Non sono il solo a pensarla cosi. Insomma: mi sento meglio.

A tutti dico: leggetevi Tehelka, che e sempre online: è cosi si che si capisce l’India.

Foto: Satish Krishnamurthy

Annie Zaidi sulla rivista del Touring

Touring di questo mese segnala I miei luoghi, di Annie Zaidi.

La Cina in cinque libri

Segnaliamo una lunga intervista di The Browser a Chris Livaccari, direttore del dipartimento Educazione e Lingua cinese di AsiaSociety, a New York. Si parte da cinque libri per parlare di molti temi in realtà, che spaziano tra linguaggio e cultura, storia e religione, stereotipi e società in Cina. I libri sono: The Languages of China, The Sextants of Beijing, Wandering on the Way, Diary of a Madman and Other Stories e The Story of the Stone.

Han Han su GQ

Un lungo approfondimento del mensile GQ su Han Han, nel quale si parla della sua vita e dei suoi rapporti con il potere, e si cita ovviamente anche Le tre porte, uscito con Metropoli d’Asia pochi mesi fa.

Acquista qui il libro

 

Le voci dell’India

L’Hindustan Times dedica un approfondimento, segnalato da Breaking News India, su come sta cambiando il rapporto tra i cittadini e l’informazione nel paese. Come quasi ovunque nel mondo, con i social media che guadagnano terreno e superano i media tradizionali.

Nella seconda parte dell’articolo si presenta invece un esperimento per calcolare l’influenza che hanno alcuni personaggi celebri del paese attraverso i social network. I risultati sono a questo indirizzo e vedono ai primi posti compaiono soprattutto politici, seguiti dai nomi del cinema.

Foto: Poras Chaudhary

Art Studio premiato, aspettando la versione italiana

La rivista Asia Weekly di Hong Kong ha inserito Art Studio, del singaporeano Yeng Pway Ngon, tra i migliori dieci romanzi in cinese del 2011. Il libro uscirà a inizio 2013 con Metropoli d’Asia, che ne detiene i diritti mondiali. Qui sotto un ritaglio dallo Straits Times, giornale di Singapore che parla del libro.

 

damis_rhu@mailxu.com kinnon@mailxu.com barcello.felisa