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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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In Cina, tra letteratura e cinema

Caratteri Cinesi traduce il resoconto di un incontro avvenuto nel corso del Bookworm Festival tra il regista e scrittore Zhu Wen (Dollari la mia passione e Se non è amore vero, allora è spazzatura con Metropoli d’Asia) e lo scrittore e blogger Murong Xuecun.

Si è parlato di cinema, in particolare in rapporto alla letteratura, con un passaggio dedicato anche al rapporto tra romanzo e sceneggiatura, dove è stato proposto un interessente paragone con il tema delle traduzioni:

Si può avere quella letteraria, quella di significato e quella dello spirito. Tra un libro e una sceneggiatura deve passare lo spirito del lavoro iniziale.

Diverso l’approccio dei due autori sulla censura (una curiosità: in Cina sono vietati i film con i fantasmi), tema che è stato anche toccato durante le conferenza. Zhu Wen afferma di non curarsene molto, mentre Murong Xuecum ammette un’autocensura per condividere il suo lavoro con il pubblico cinese.

Errare

L’editore errante incontra. E’ questo il bello del mestiere.

Oggi, in tour nel Sud Est asiatico, mi trovavo in una stanza spoglia, seduti in quattro attorno ai tavolini di ferro nel retro di una libreria indipendente di Kuala Lumpur: Silverfish Books, di Raman Krishnan, che oramai conosco da anni: ogni volta lo passo a trovare e lui ascolta paziente la mia storia, ma non abbiamo mai trovato il modo di collaborare. Raman ha costruito attorno alla sua libreria una piccola casa editrice che riesce a pubblicare ottima narrativa e saggistica in lingua inglese: mi dice che è il suo ‘progetto politico’ che è affermazione abbastanza inusuale da queste parti, anche se è forse solo una traduzione ambigua: politics, cosa davvero si intende? Ma è chiaro che per lui, di origine indiana, è il modo per coltivare una battaglia culturale contro l’imperare di un islam invadente anche se non oppressivo: e la lingua inglese lo situa in un ambito di autonomia intellettuale.

Oggi Raman faceva da chaperon a un incontro con due editor locali che mi presentavano il loro progetto: Linda Lingard e Dayaneetha Da Silva intendono lanciare una casa editrice che traduca dalle lingue locali del sud est asiatico: in inglese, ovviamente. Bel progetto, vuol dire dare aria a una narrativa che altrimenti resta confinata nel Sud Est. Ma quanto costa farlo? A chi la vendi? Linda e Dayan apparivano impreparate.

E quindi ecco apparecchiata una conversazione a largo raggio che spazia dalla narrativa bengali all’e-book, e queste persone mi erano estremamente simpatiche, Linda clumsy, cinese che va all’ingrasso, facilmente imbarazzabile, Raman come sempre un po’ in difesa dietro a frasi altisonanti (modello, struttura di costi) e a qualche affermazione messa giù solo per dimostrare una conoscenza enciclopedica dell’editoria asiatica, ma intelligente e appassionato, capace di scovare talenti che ora tenterà di imporre al mercato europeo, e vedremo.

E Dayan (più tardi mi ha accompagnato a prendere un taxi e mi ha detto: io sono stata invitata da Linda a questa riunione, sapevo grosso modo chi sei tu, ma non ho capito per niente il ruolo di Raman: io le ho risposto: se conosco bene Linda, ha sempre bisogno di farsi accompagnare da qualcuno che la rassicuri). Dayan, direi, è editor di origine indiana, qualche capello bianco come un aureola attorno al viso, anche lei bella larga di fianchi ma giovanile nello sguardo, vispa, acuta.

Ma che stavo a dire? Ah sì l’editore. In realtà quel che mi premeva qui ricordare è il primo incontro in assoluto, nel corso del mio errare (che humanum est, sì, ma l’etimo che mette insieme lo spostamento nello spazio e l’errore va indagato). Dalla lista di un gruppo di amici di Bombay, un nome e un numero di telefono: Meher Pestonji. A casa sua, la bella e cupa casa di Colaba, dentro a una stanzetta dove c’è il suo computer, e soprattutto il suo brandy. Lei versava, versava, parlava di ‘social work’ (io di microcredito) e di un paio di romanzi suoi (io dei ‘narrative non fiction’ miei). Di bicchiere in bicchiere io pensavo: bel mestiere, l’editore errante!

Al di là dei giochi e delle sbronze, nel corso del tempo che mi ha portato in quattro anni da una scrittrice a un gruppo di publishers, da Bombay a Kuala Lumpur, a me è restato in mano una sorta di album delle figurine. Quelli che incontro non solo sono artisti e operatori culturali di civiltà lontane nello spazio (anche se sempre più contigue a noi nelle forme). Sono purissimi esponenti di una middle class asiatica che sta oggi imponendosi al mondo: perché consuma, perché fa attività economica che cresce, perché distilla comportamenti e visioni del proprio mondo che a me piace confrontare con il mio. Un Altro, insomma. Ma un Altro non dissimile da me, di cui mi affascina questo ripartir da zero: cosa sono le metropoli asiatiche se non un mondo nostro, di ceto medio (piccola borghesia, si diceva una volta), consueto, eppure desueto perché loro alle spalle hanno poco, si vedono questo futuro nuovo di zecca davanti agli occhi e possono ancora ragionare su come strutturarlo, decidere cosa farci, lì dentro. Gli piace? Non gli piace? Cosa gli pare giusto e cosa sbagliato?

Due pensierini finali.

1. Mi pare si chiamasse Claudio Lolli il cantautore italiano che scrisse questi interessanti versetti: Vecchia piccola borghesia / per piccina che tu sia / non so dire se fai più rabbia / pena, schifo, o malinconia. Ecco: la piccola borghesia asiatica no, non fa né schifo né malinconia: anzi!

2. Dal Dizionario Italiano Ragionato G.D’Anna – Sintesi, Firenze 1988 (molto pre-twitter): errare v. intr. Nell’accez. orig. Andare senza una meta precisa. Vagare (…). Viaggiare senza una meta. / Dall’idea del vagare deriva il signif. di Sbagliare, Incorrere in errore. Allontanarsi dal vero (essendo l’idea dell’errore connessa a quella dello smarrimento della giusta strada).

Perseverare diabolicum.

Come va il mercato editoriale indiano

Tropico del Libro commenta alcuni dati forniti da Nielsen BookScan relativi al mercato editoriale indiano, con una premessa relativa alla difficoltà di trovarne di attendibili, dato che nonostante la crescita delle grandi catene buona parte delle librerie sono piccole e non hanno una gestione elettronica delle scorte. Inoltre, anche la pirateria è un fenomeno molto diffuso.

Nonostante questo, si può comunque vedere una grande crescita dei lettori, influenzata in primo luogo dall’aumento dell’alfabetizzazione. Gli editori, inoltre, possono beneficiare di un ampio sistema di aiuti statali. Altro fenomeno è ovviamente la diffusione dell’inglese. Si stima che l’India sia la sesta industria editoriale al mondo, con un mercato cresciuto del 45% in volume solo nella prima metà del 2011.

Annie Zaidi su Il Foglio

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Calcutta e Kolkata

Mandira Sen è un’editrice di Calcutta. La sua Stree Samya dichiara di occuparsi di ‘Gender and Social Issues’: le donne innanzitutto, ma anche gli intoccabili, la società indiana e quella del West Bengal, lo stato che ha Kolkata per capitale e che per decenni è stato considerato cuore culturale dell’India e della sua intelllighenzia di sinistra, perché governato da un partito comunista che nazionalizzava e restava legato a doppio filo ai sindacati operai, favorendo ogni forma di espressione artistica: prima di Bollywood il grande cinema indiano è nato qui (Satyajit Rai), e la letteratura in lingua bengalese (che data le sue origini nel 14° secolo) ha vissuto un periodo di rifioritura nei decenni successivi all’indipendenza indiana, sule orme di Rabindranath Tagore. Ci sarebbe da parlarne per pagine e pagine, ora basti dire che i tempi son cambiati, e di parecchio.
Io come sempre preferisco scrivere di lei, di Mandira Sen, di chi le sta intorno, e del nostro incontro. Che mi ha portato in una bella casa della media borghesia di Calcutta, o Kolkata in hindi, o Kolikata in bengali, non ricca ma raffinata, piena di legno e libri, e come sempre di ottima cucina indiana.
Sono a spasso con un gruppo di editori italiani intruppati dall’AIE (di questo sì, dovrò raccontare), spaventati dal disordine, dalla povertà, dal traffico e dalle latrine. Ho cercato di spiegarglielo. Delle grandi città Calcutta è quella che più conserva il segno delle metropoli indiane. Usciamo da un hotel mitologico (il The Grand) che sembra costruito come un fortino, quadrato attorno alle sue palme e alla sua piscina, cesellato di vetri smerigliati e parquet, di lampadari a goccia e marmi (indani? O li portavano da Carrara, da Milos?). Due soldati lo presidiano dentro a una garitta protetta da una lastra di metallo pesante, e puntano i fucili mitragliatori verso l’esterno. Si esce dal cancello ed ecco il giardino delle delizie terrene di Hyeronimus Bosh (e di Indrajit Hazra), i corpi sembrano accatastati l’uno sull’altro, i negozianti siedono a gambe incrociate appollaiati dentro a scatole sopraelevate, i mendicanti implorano, i negozi delle griffe cercano di farsi luce nella confusione. Ma quando le giri a piedi, queste strade, non ti senti minacciato, non temi per le tue saccocce, non hai una sensazione di assalto imminente, semmai un pochino di asfissia. Sono bravi gli editori italiani: sfidano uno schock, e ne escono soddisfatti.
Ma se anche volessi, io pur più avvezzo all’India, chiudermi dentro a un pullmino con aria condizionata, Mandira non me lo consente: nella sua grafia che tanto ricorda quelle dei nostri padri, o nonne, mi da indicazioni su come uscire da una fermata di metrò che prima va, ovviamente raggiunta.
E il metrò è una piacevole sorpresa: niente a che vedere con la modernità esibita di quello di Delhi, men che meno con l’affollamento dei treni urbani di Bombay. Solo, un po’ di coda per il biglietto, davanti a una cassa che sembra uscita dai nostri anni cinquanta: con i foglietti appiccicati con lo scotch per dirti dove devi andare. Vado alla fermata di Kalighat, appunto non lontano dalle gradinate dove si scendeva al fiume un tempo, dedicate a Kali così come il tempietto sotterraneo, incastonato nelle piastrelle a muro della stazione del metrò, baricentro delle indicazioni scritte da Mandira: sali la scala a sinistra dell’altare (però dice shrine: quindi reliquario?) esci e vedrai la mia via.
Il personaggio, in casa, è il marito. Governando i due figli adottati da piccoli, e un cane che vorrebbe sedersi sempre sopra alle mie scarpe, mi racconta del West Bengal. Amit è di una cultura stratosferica, potrei ascoltarlo per ore, anche se non di cultura si occupa: ma di cosa si occupa esattamente? Si descrisse come economista un anno fa, quando ci portò in giro per i vecchi club di Kolkata (Cricket Club, Gymkhana Club, Radio Club, gli stessi nomi che a Bombay, gli stessi arredi coloniali, come a casa loro legni scuri e vetri smerigliati, whisky pregiati, camerieri in livrea). Quando Draghi ha preso il comando della BCE Mandira mi ha scritto: me lo ricordo, era un compagno di studi di Amit, e io ero diventata amica intima di sua moglie: tu per caso non sai come potremmo contattarlo, ora? Figurati. Ma Amit ora mi dice: economista? Beh mi sono interessato di commerci… Il tutto dentro a un salotto di sicuro non leccato, molto poco ‘pettinato’: e il cane puzza, devo dire. Ma qui si beve birra a fiumi, per cominciare.
Protagonisti della serata saranno il mio amico Carlo Laurenti, traduttore di Cioran, collaboratore di lungo corso con l’Adelphi di Calasso, uno stile a metà strada tra l’hippy in ritardo e l’intellettuale British anni ’40, magari omosessuale (ma lui non lo è), magari un po’ fuori, magari ubriaco della sua stessa passione per le connesioni e le reciproche influenze tra Oriente e Occidente, di cui discorre con Sankar, un’amico della famiglia Sen, saggista bengali e traduttore, sempre in bengali, di filosofia classica europea. Mi perdo, scusatemi, non riesco a seguirvi e comunque non dopo questa birra, questo vino, e l’whisky che tengo tra le mani.
E insomma, Mandira? Mandira è la stessa del video che qui in coma ho linkato: qualche improvvisa scivolata verso un sorrisetto insofferente, frequenti riassestamenti su un sorriso solare, dolcissimo, una attempata e giovanissima vecchia signora che doveva essere bellissima anche solo pochi anni fa e che chiunque sposerebbe di corsa ora. Pensieri pieni di whisky, certo.
Bel catalogo, quello di Mandira. Intraducibile in Italia, ma dategli una scorsa: questa è la borghesia intellettuale di Calcutta, che come la nostra non sa più bene dove andare. Uguale uguale, gente. Sono le connessioni: tra l’Oriente e l’Occidente.

L’8 marzo di Annie Zaidi, su China Files

Ieri China Files ha realizzato uno specialone per la Giornata internazionale della donna (aka Festa della donna). Si intitola Altre donne e raccoglia una serie di storie legate a diversi paesi dell’Asia.

Per quanto riguarda l’India, è stata proposta una lunga intervista ad Annie Zaidi nella quale sono stati toccati diversi temi legati alla situazione delle donne nel paese. Inoltre, è stato pubblicato un estratto da I miei luoghi, il reportage di Annie Zaidi appena pubblicato da Metropoli d’Asia.

D: Le donne in India subiscono quotidianamente discriminazioni e molestie, anche nella vita di tutti i giorni. Pensi che, nonostante tutte le differenze di casta, religione, ricchezza e status sociale, esista un tratto comune in grado di unire tutte le donne in India nella loro condizione? Pensi che ci sia un terreno comune dove tutte le donne indiane sentono di far parte di un gruppo specifico?

R: Questa è una domanda difficile. Credo che l’identità nazionale (così per come ladefiniamo) sia un concetto poco compreso, specialmente quando le persone sono divise e si dividono ancora in base a caste, religioni, classi sociali e così via. Se chiedi a una donna tribale illettarata che vive in un’area remota cosa significa essere una donna indiana, cosa risponderà? Lei a malapena sente la presenza dello stato indiano, a meno che non abbia beneficiato di particolari programmi statali, o altro, oppure può esser stata traumatizzata da altre forze che possono essere statali o meno, ma che lei comunque qualifica come “indiani”.

Oltretutto, moralità, norme sessuali, matrimonio e aspettative lavorative differiscono da una comunità all’altra.
Ci sono molte somiglianze, naturalmente. Una larga gamma di classi e caste sono aggrovigliate in quello che possiamo chiamare ‘mainstream’, la corrente tradizionale. Condividono i valori e i problemi che chiamiamo “indiani”. Ma fino a poco tempo fa c’era una grande diversità e, anche ora, le cose sono in continuo mutamento.

(Continua a leggere su China Files)

Local Economy

Li ho incontrati insieme alla Fiera del Libro di Calcutta, davanti al padiglione degli incontri con gli autori naturalmente, e le somiglianze tra i due mi sono saltate all’occhio. Giovani, ruspanti (termine inusuale? A me piace, mi pare designi persone o situazioni o testi o sonorità o immagini che non perdono il contatto con la nuda terra, con la grana dura dell’asfalto. Il suo opposto potrebbe essere: raffinato, letterario, snob, salottiero, evanescente, effimero). Al punto da mettere a dura prova il mio inglese, da loro storpiato gergalmente, e come sempre inframmezzato da termini hindi, masticato dentro alle loro bocche. Di Sarnath Banerjee recentemente ho detto: Sarnath bofonchia. Come una pentola in perenne ebollizione, con un coperchio che le balla sopra e rimanda sbuffi e clangori. Indrajit Hazra no, lui pronuncia le sue frasi con voce stentorea, alza la voce quando occorre, ma il suo vocabolario è un tunnel scavato nella roccia viva, con le pareti graffiate da rostri meccanici, un po’ reminescenze di passate epoche aliene, un po’ modernità barocca.
Hazra ha una rubrica sull’Hindustan Times e lì si occupa di tutto, dal calcio a Bob Dylan, dai senza casta ai politici glamour. Politicamente scorretto quel che basta a regalarci zaffate di verità purissima su un India talmente vasta e complessa da non poter essere ridotta entro alcuno schema precostituito, entro il già detto.
Banerjee è artista visuale riconosciuto, esposto in Europa (anche al Maxxi di Roma), in cerca di una sistemazione semipermanente a Berlino, ben insediato a Londra (mentre Hazra, non so dire perché, in una nostra città ce lo vedo poco), ma indiano fin nel midollo, per nulla anglo-eccetera, a suo agio nella confusione e nella puzza della nativa Calcutta come nel bel mondo dei vernissage di Delhi.
Hazra lo incontri a volte sfranto da buon vino rosso (o cattivo vino rosso indiano). Banerjee ricorda più un nostro artista off da centro sociale, avvezzo ad altri usi e consumi.
Bibliografia: di Hazra il nostro Il Giardino delle Delizie Terrene, ma anche un Bioscope ambientato nella Calcutta dei tempi d’oro del cinema indiano (ruspante), svolto attorno al proiettore 36 o 72 pronto a andare a fuoco appena possibile – come nel Giardino: che finisce con uno dei due protagonisti che da fuoco alla Fiera del Libro di Calcutta (ehi Indrajit, sei qui a dar fuoco al padiglione? Si guarda intorno preoccupato: well, non nominare quel romanzo). Il piromane cominciava la sua carriera lasciando andare a fuoco la casa con la fidanzata dentro…
Di Sarnath Banerjee, graphic novelist, c’è un buon The Corridor (da me inseguito invano perché appariva venduto a un ignoto editore italiano di cui nulla poi si è saputo), storia di un graphic novelist e della sua Delhi (paradossalmente molto milanese, gli dissi una volta), e poi the Barne’s Owl, bellissimo nella scelta di inserire entro al disegno foto vive di Calcutta, che ci appare così in tutto il suo fatiscente splendore, ma poi costruito su una linea narrativa tutta dentro a un passato di battaglie e cavalieri, elmi e spadoni. L’ultimo Harappa Files è una collezione di pezzi brevi o vignette singole: se avete voglia di immergervi nei temi politico sociali trattati quotidianamente dal gossip mediatico indiano, accomodatevi: è perfetto.
In diretta differita, la seguente scena.
Sarnath (Dopo avermi salutato con l’abituale: Andrea, tu sei una spia di qualche servizio segreto, MI5, Mossad. Dove vado nel mondo, Londra, Ferrara, Kolkata, Delhi, arriva Andrea) (E quando dimostro di avere notizie dei suoi spostamenti recenti mi fa: tu mi sembri Lord Shiva, onnisciente e onnipresente): Indrajit tu conosci Andrea?
Andrea: certo, gli ho pubblicato il Giardino.
E Sarnath gli salta addosso: oh, sono entrati un po’ di soldi allora?
Indrajit: beh sai, l’economia italiana è in crisi, Andrea mi ha chiesto una prestazione gratuita.
Sarnath: ah, e l’economia globale va meglio?
Indrajit: recessione.
Sarnath: e l’economia locale? (E mentre Indrajit si gira a parlare con qualcun altro rilancia la domanda: and what about local economy? And what about local economy?).
Sono i nuovi intellettuali indiani. Trenta-quarantenni, circondati da riferimenti globali e occidentalizzati, ma immersi dentro a un humus indiano che è il loro cortile, background perchè backyard (giardino?), questa polvere che non te la stacchi di dosso nemmeno alle mostre dei vari British Institute perché impregnata di delizie terrene a cui non hanno alcuna intenzione di rinunciare. Non sono mica matti.

Metropoli d’Asia sul Giornale della Libreria

In un lungo articolo dedicato all’India.

Dir di no

Com’è difficile dir di no.

Quando decisi di saltare il fosso, e da scrittore trasformarmi in editore, ero solito dire: son passato dall’altra parte della barricata. La parte comoda, dove tieni il bastone del comando.

Ora, al di là dei molti oneri e dei pochi onori del mestiere di editore (sia esso in partnership con una possente macchina editoriale che ti chiude nel Castello Kafkiano, dove non tu non sai mai chi ha preso la decisione o non decisione sbagliata, e dove ti hanno nascosto il bandolo di una matassa che sempre più ingarbugliano a dovere; o sia esso l’editore indipendente, che a sua volta dipende da uno stuolo di fornitori e collaboratori che giustamente ti tirano per la giacca sette volte al giorno, e il dettaglio di cui ti stai occupando in quei sette minuti è ben lungi dal contenere in sé il mondo ma anzi, moltiplicato per cento costruisce un mosaico rococò di punte degli iceberg, e tu non hai mai il tempo di vederne i sei settimi che stanno sotto), la presunta comodità da Deus ex Machina si infrange davanti al manoscritto di un autore (puoi quasi definirlo un amico) che non ti pare all’altezza.

E allora?

“I am pained”, mi rispose Raj Rao alla mail nella quale gli comunicavo che non avrei pubblicato né preso i diritti da agente di un suo romanzo. Non ne rivelo il titolo, perché Raj sta ancora cercando di piazzarlo, e spero davvero trovi un editore in India. Ma “I am pained”, colpisce me come un cazzotto allo stomaco. Io non voglio addolorare nessuno, non mi piace questa responsabilità.

Mi metto in salvo dunque ricordando i tempi in cui mi trovavo dall’altra parte della barricata. Una volta, dopo un anno di attesa e un lavoro di cesello a fianco di un editor importante, il giudizio finale sui miei racconti fu: “acqua fresca”. L’editor, cercando di consolarmi, disse: che poi non capisco perché acqua fresca vada inteso negativamente.

I racconti furono in seguito accolti (eh già: di accoglienza si tratta, dal punto di vista dello scrittore) da un editore meno importante, e la festa per il loro arrivo nelle librerie fu calorosa e partecipata. Anni dopo un (pessimo, lo ammetto) tentativo di romanzo giallo fu stroncato da un “ci ha molto deluso” (e certo: grazie per le aspettative).

Il giallo comunque fu giudicato troppo allineato a uno stile da serial televisivo, dove invece che sprazzi di realtà si mostrano stereotipi, cliché, luoghi comuni: quanto di peggio, insomma (e inutile stare a raccontare che il mio intento ben altro era da quello: non sono riuscito nel mio intento, quindi zitto e mosca). (NB: una delle due risposte negative mi arrivò un venerdì 13, e qui chi più ne ha più ne metta, perché l’autore rifiutato sa inventarne di ogni).

È invece un venerdì 20, al Jaipur Literary Festival, quando ricevo la chiamata di Raj. Faccio qualche passo nella direzione indicata, mi giro tre volte su me stesso dicendo dove sei, fino a sentir la frase nel cellulare: ti sto guardando.

Raj mi guardava con un espressione torva, perfino spaventata: in ogni caso pained. Ci siamo seduti su due sedie nel prato, circondati da una marea di gente, mentre il suo accompagnatore dopo avermi stretto la mano si accovacciava sull’erba dandomi la schiena. A dirla tutta, Raj quasi non parlava, dovevo tirargli fuori frasi smozzicate.

Capivo che ogni mio atteggiamento rischiava di ferirlo, sentivo la nevrosi nella sua domanda: perché ieri non mi hai chiamato? Avevamo deciso di andare insieme a un party editoriale, ma io ero arrivato tardi a Jaipur e non mi ero fatto sentire. Immaginavo che lui immaginasse che io avessi volutamente evitato di farmi vedere insieme a lui: immaginare è certo prerogativa degli scrittori e degli editori-scrittori, e quindi occhio: a volte bisogna saper mollare la presa.

In ogni caso nei giorni successivi lo ho calorosamente salutato tutte le volte che lo incontravo: mi facevo un punto d’onore di farmi vedere a chiacchierare con lui. Perché la sua, di nevrosi, da scrittore omosessuale e attivista, e accademico che con fatica ha di recente visto riconosciuti i propri diritti in quanto a carriera e posizioni di prestigio, è una nevrosi argomentata, e insomma Raj non ha tutti i torti.

Il suo editor di riferimento in India, colui che aveva gli ha pubblicato i primi tre libri, ha recentemente cambiato posizione. E: “lo sai, l’editoria indiana è piena di donne”. In effetti il suo romanzo ha una donna tra i protagonisti del triangolo amoroso complicato, etero e omo. Troppo luogo comune, troppo cliché. Ma sono d’accordo con Raj: anche la reazione negativa delle pur bravissime donne dell’industria editoriale indiana è improntata a un cliché: le donne che in India faticano a imporre la loro indipendenza, a guadagnarsi il rispetto, rispondono poi a ogni visione critica con un riflesso da politically correct. Cliché contro cliché.

Che dire? L’ho fatto, ho rifiutato il manoscritto. Gli ho anche dato dei consigli, ho capito l’intenzione, ho criticato il risultato. Gli ho augurato di trovare un editore indiano. Gli ho raccontato qualche balla di troppo sul mercato librario italiano. Ho anche provato a girarla dal lato giusto: spiegando per bene cosa intendevo (me lo son riletto due volte nei giorni precedenti all’incontro di Jaipur). Gli ho fatto vedere dove e quando: Raj non era d’accordo, naturalmente.

Ecco che ho fatto, alla fin della fiera: ho scritto questo post, e invece di chiamarlo per nome e cognome, ecco apparire Raj. Raj di qua, Raj di la. Io sono tuo amico. Raj…

Amruta Patil tra miti e India

Segnaliamo un lungo articolo di Amruta Patil (Nel cuore di Smog City) su Tehelka, per capire il quale bisogna però premettere che l’autrice sta lavorando a una trasposizione grafica del grande poema epico indiano Mahābhārata.

Partendo dall’opportunità o meno di mostrare i capezzoli delle apsaras, si sviluppano da lì tutta una serie di interessanti riflessioni più da attualità, anche difficili da riassumere in realtà, per come il discorso sia da un lato anche molto personale e spazi liberamente tra i temi in ballo, legati alla libertà di parola e alla censura, all’arte e agli artisti, e alle traduzioni.

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