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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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Su Twitter e la censura

Nel comunicato apparso sul sito di Twitter un paio di giorni fa di certo hanno preso la questione alla lontana, parlando di “paesi che hanno una differente idea dei confini della libertà di espressione” (insomma: diversamente liberi), e tra i tanti esempi che si potevano fare citando il divieto di apologia del nazismo in Francia e Germania, non esattamente due paesi noti per reprimere la libertà di espressione.

Più in dettaglio, si parla della possibilità di escludere un contenuto in un singolo paese invece che globalmente. Il punto però è che Twitter in molti stati è ora vietato (salvo utilizzo di software che aggirano il blocco), e vista da un’altra angolazione sembra che in questo modo si vogliano gettare le basi per uno sbarco ufficiale in quei paesi.

Tra questi, en passant, c’è la Cina (sugli altri social network in Cina vedi qui). Il primo a parlare è stato l’artista Ai Weiwei, che nonostante il divieto è molto attivo Twitter (per seguirlo tradotto in inglese vedi qui). La sua reazione, affidata proprio a un tweet, è stata:

Se Twitter censura, smetterò immediatamente di usare Twitter

La questione è sicuramente destinata a far discutere. Qui un primo giro di opinioni a livello internazionale (video, in inglese).

Informazioni, notizie, scrittura, racconto

Capisco quanto questi miei post abbiano a volte un passo che viene travolto da un andamento dello scambio di informazioni che letteralmente mi violenta, mi afferra e mi scaraventa altrove. E non è solo questione di vecchi media.

Recentemente, a Jaipur, intorno al caso Rushdie ho sbattuto il naso su Twitter, che pure MdA utilizza a piene mani, più per scelta “di marketing” che per mio desiderio diretto: insomma, si fa, si twitta, e allora restiamoci dentro anche noi. Quindi: decisione di provare una diretta twitter da Jaipur, con la sensazione di sentirmi esplodere l’hardware tra le mani.

Perché succede questo: che la mia percezione, la mia visione rasoterra del caso Rushdie, che si forma camminando sul prato e lungo i vialetti del Diggi Palace i primi giorni, incontrando scrittori, editori, giornalisti, e si forma assolutamente in diretta, non coincida con la percezione a posteriori, filtrata dalla cassa di risonanza dei media per così dire tradizionali.

Insomma, i primi giorni, dopo l’annuncio della rinuncia alla visita da parte di Rushdie, e perfino dopo l’interruzione (richiesta dagli organizzatori stessi del festival) della lettura di alcuni brani di I versi satanici iniziata per protesta da parte di quattro autori, avevo la netta sensazione che tutti volessero tenere i toni bassi, che sentissero l’argomento come distraente: l’ho già detto, in India i problemi, i fondamentalismi, i poteri, i massacri e le vite perdute sono tali e tante che ogni ‘operatore culturale’ a Jaipur sperava di poter andare oltre Rushdie, e di parlare semmai di quelli, attraverso i romanzi, i saggi, i reportage, le biografie.

La mia ingenuità è stata quella di pensare che Twitter potesse registrare questa sensazione (meglio: questa realtà dei fatti). E quando dico Twitter estendo la definizione a tutto il mondo della comunicazione in rete, quindi Facebook e i blog, anche quelli giornalistici, che vorrebbero rappresentare uno spazio di formazione della notizia diverso (appunto: con un altro passo), e invece secondo me non ci riescono.

È il Festival di Jaipur che è risultato violentato dalla notizia. Invano si è cercato di contestualizzare (ho apprezzato lo sforzo di qualche giornalista indiano di ricordare come un artista dal cognome musulmano, Husseini, sia stato di recente preso di mira dal fondamentalismo opposto, quello dominante in India, cioè quello induista). Gli organizzatori ne sono stati travolti, il loro tentativo di gettare acqua sul fuoco è stato successivamente scambiato per pompieraggio, sabotaggio della protesta.

Perché il caso è montato DOPO, il fatto. La notizia ha preso il sopravvento, è stata ripresa dai media internazionali (che viaggiano con il pilota automatico), ed è letteralmente esplosa nel momento in cui il fatto si stava sgonfiando, e a Jaipur si parlava sì di induismo e islam, o di politica e partiti, o di libertà di espressione, ma argomentando e dialogando, facendo riferimento all’India reale, vera: quella che si vede in modo chiaro tenendo lo sguardo rasoterra, a altezza d’uomo (ecco, a proposito: una volta si diceva: andare a passo d’uomo).

La delusione sta nel vedere come i cosiddetti “nuovi media” si siano adeguati piattamente a questo andamento, divenendo casse di risonanza de La Notizia. Altro che democrazia dell’informazione, pluralità delle voci.

E mentre io mi ritrovo oggi, finalmente, a conversare con partecipazione e interesse insieme a un editore locale e a un esperto indiano di letteratura bengali e a un sinologo italiano con una conoscenza straordinaria delle relazioni tra la cultura asiatica e quella europea, tra persone piacevoli, intelligenti, che mi dicono: è triste come 200 integralisti possano trascinare una nazione intera a parlare di loro. Mentre io ritorno nel mondo reale, qui a Kolkata, alla Fiera del libro, il dibattito sul caso Rushdie comincia a lievitare.

Non c’è niente da fare: se voglio restare col mio passo a raccontare l’Asia che vedo, dal basso, sguardo altezza uomo, bisogna che me ne resti lontano dalle notizie. Dai media vecchi e nuovi.

Rassegna stampa su I miei luoghi

Vi proponiamo una serie di articoli su I miei luoghi, di Annie Zaidi, pubblicati all’epoca dell’uscita del libro in India (titolo originale Known Turf).

DNA India

Mumbai Mirror

Pioneer

Times of India

Outlook India (tradotto da Internazionale)

e in più la segnalazione (della versione italiana) su Left

Ricapitolando un po’ su Rushdie a Jaipur

Il giorno prima dell’inizio del Festival alcuni politicanti locali annunciano manifestazioni contro la presenza di Salman Rushdie al Jaipur Literary Festival. Siamo in periodo pre-elettorale e tutto fa gioco: voti musulmani da conquistare. Ricordiamoci che siamo in un paese dove i fondamentamentalismi religiosi (quello indu su tutti) sono vastamente utilizzati come strumenti di consenso elettorale e di potere.

Tutti sono abituati al succedersi di casi del genere. A tratti, con una certa regolarità purtroppo, la conflittualità interreligiosa (che si sovrappone a quella tra Pakistan e India) esplode, nel senso letterale del termine: pogrom, attentati, bombe. Saltano per aria stazioni ferroviarie e altri luoghi frequentati. E questi sì sono fatti importanti.

Ma la notizia delle manifestazioni anti-Rushdie viene trattata dagli organizzatori del Festival e dagli scrittori e intellettuali locali come fatto di routine. Appunto, siamo in un paese che alle notizie minori ci ha fatto il callo.

Il giorno dopo Rushdie annuncia di avere ricevuto dai servizi segreti la notizia che da Bombay sono in partenza due (o tre) killer prezzolati per ucciderlo: e rinuncia al festival. La notizia, di nuovo, è accolta con una certa sufficienza a Jaipur: gli organizzatori chiedono esplicitamente alla stampa di occuparsi degli altri scrittori e non solo del caso Rushdie. La sensazione prevalente è: Rushdie (odiatino e invidiato, uomo di grande potere) si sta facendo un po’ di pubblicità, i politicanti ci rompono come sempre le scatole, il fondamentalismo è la solita tara, ma noi cerchiamo di tirare dritto.

Quattro scrittori invece iniziano una protesta: in apertura delle loro sessioni di dibattito iniziano a leggere brani da I versi satanici. Gli organizzatori accorrono e chiedono loro di sospenderne la lettura. Improvvisamente tutti si rendono conto che il libro è censurato in India (paese a maggioranza induista, non c’è nessuna Sharia, qui). Anzi le autorità locali, saputo dell’accaduto, consigliano ai quattro scrittori di lasciare immediatamente il paese, perché esiste il rischio concreto di essere arrestati (per loro, e il rischio che nel frattempo si spostino consistenti pacchetti di voti).

Di nuovo, la cosa viene accolta come si accoglie la grandine: è l’India, ne succedono di cotte e di crude ma andiamo avanti. Parte una petizione contro la censura a I versi satanici, e qualcuno fa osservare che i libri censurati sono molti, in India: urge un censimento. E le censure appaiono avere carattere di assurdità spesso e volentieri, proprio perché risultato di manipolazioni del consenso da parte di piccoli e grandi potentati politici, a livello nazionale e locale.

Ma quando le autorità centrali (e i servizi) annunciano che non è mai partito nessun allarme riguardo ai killer, e che anzi l’allarme è da considerarsi risibile, a molti cadono le braccia. Rushdie è atteso da un giro di conferenze stampa: c’è un film in produzione tratto da I figli della mezzanotte.

In conclusione: al di là del consueto show mediatico e pre-elettorale, mi pare di vedere tre posizioni differenti.

La prima è quella di autori indiani in voga, vedi il Moccia locale Chetan Bhagat (stranamente tradotto in Italia da un editore bravo e attento come E/O), che rappresentando in modo organico (così si diceva una volta) la cultura del ceto medio indiano, afferma che se Rushdie ha offeso i sentimenti religiosi di qualcuno è giusto che sia perseguito. In sostanza: in India emerge una classe di moderni benpensanti e gli scrittori da show li rappresentano pienamente.

La seconda posizione è quella di autori indiani non residenti, cioè di cittadinanza (e magari nascita) americana o britannica, che reagiscono in modo automatico alla fatwa, senza farsi troppe domande sul contesto: come se il fatto accadesse a Londra.

La terza è quella di molti scrittori e intellettuali indiani (è abbastanza chiaro che io concordo con questi ultimi) che prendono spunto per aprire una campagna sulla censura, ma insistono nel ricordare che in questo paese i problemi sono ben altri (e soprattutto i killer: sui giornali veniva in questi giorni confinata in pagina interna la notizia di quattordici tra poliziotti e cittadini trucidati da un assalto maoista nel nord-est del paese, e sarebbe stato la stessa cosa se si fosse trattato del solito omicidio di massa di contadini da parte delle forze di sicurezza indiane). Salman Rushdie, per queste persone, è proprio l’ultimo dei problemi, in India.

Nota a margine: le prime due posizioni esprimono dei luoghi comuni. La terza è posizione da scrittori veri proprio perché lontana dal luogo comune (o stereotipo che dir si voglia).

Seconda nota a margine: noi occidentali dobbiamo stare molto attenti a non riproporre i nostri luoghi comuni nelle realtà altrui.

E comunque: no alla censura.

PS: In Italia esistono libri e/o spettacoli censurati? Quali? Che sentimenti religiosi offendono?

Foto: kittell

In diretta dallo Jaipur Literature Festival

Siamo alla Jaipur Literature Festival, importante evento letterario indiano che quest’anno ha fatto molto parlare per le polemiche legate all’invito a Salman Rushdie e le questioni legate alla sicurezza. Seguiteci su Twitter per aggiornamenti da lì, e seguite anche l’hashtag #JLF per tutto quello che riguarda il Festival.

Annie Zaidi, quattro anni fa, a Delhi

Il contatto me lo aveva dato Peter Griffin, di Caferati, una fanzine (una volta si diceva così) on line. Lui, non ero riuscito a incontrarlo (abitava a Navi Mumbai, due ore e passa di treno, al di là dello stretto). Andavo a Delhi, e allora mi aveva dirottato su Annie.

Delhi non era facile da girare, allora. Non c’era ancora il metrò (costruito, alla faccia delle lentezze indiane, a tempo di record), la città è immensa perchè il Raj (l’impero britannico) decise di estendere la piccola Delhi verso sud, e Nuova Delhi (oggi nessuno la chiama così) fu costruita come una serie di lunghi vialoni alberati, interconnessi da gigantesche rotatorie e circondati di verde e di palazzi governativi, o residenze dei potenti, o ambasciate.

Attorno a questa zona di urbanesimo museale nascono poi le cosiddette enclave, e cioè quartieri circondati da un muro, ai quali si accede da cancellate a voste presidiate da guardiani: dentro, si ritrova spesso l’India dei vicoli, e meno spesso un’India di stradine silenziose e edifici bassi, tante piante. Ma taxi, neanche a parlarne, quattro anni fa. Nemmeno un numero per chiamarli, o almeno un numero affidabile. Quindi bisognava viaggiare in autorisciò, nei dieci gradi scarsi delle mattinate di gennaio, a macinare chilometri a decine, aria gelida sulla faccia e fumi di scarico opulenti.

Eccomi dunque a accettare la proposta del mio hotel: una loro macchina a pagamento, prezzi irrisori da India (ma sta cambiando), e, sorpresa, un macchinone grande come una nave e un autista in livrea con tanto di berretto: mai visto in vita mia. E quando penso al mio arrivo sotto la villeta a schiera dove viveva Annie ai tempi provo un senso di vergogna: per i discorsi che ci siamo poi fatti, per i racconti miei di viaggi a piedi dentro alle baraccopoli africane, che incrociavano i racconti suoi di inchieste sul campo, nei villaggi lontani. Parlammo molto di Kapuscinski. Zio Ryszard.

Perché mi presentavo ancora come scrittore, allora: bei tempi, mannaggia. Ero in India a occuparmi d’altro, ma cominciavo a incontrare scrittori più per curiosità che altro. Un’antologia, chissà. Manco sapevo come funzionava davvero, l’editoria. Anche se cominciavo a stupirmi di quanta roba buona leggevo, in inglese, roba di cui nessuno si interessava nel mondo (bei tempi, mannaggia).

Insomma, mi accoglie una giovane ragazza, bellissima e spaventata dal transatlantico con ammiraglio posteggiato sotto casa. Ricordo che, credo per vincere l’imbarazzo, mi offrì un breakfast all’indiana, un ottimo piatto di patate e paratha, pane al burro. C’era una donna, nell’appartamento, intenta a rigovernare, con la quale Annie aveva una relazione evidentemente di complicità. Il donnone mi guardava raggiante, esibendo un sorriso larghissimo che sembrava dire: è arrivato il principe azzurro. Il quale principe si vergognava proprio un bel po’.

E sì che Annie non viene certo dagli slum: una laurea, una madre che le telefona tre volte al giorno (non una parola sul padre, da parte di una scrittrice che della violenza sulle donne fa il perno della propria indagine sul mondo), la bella casa con balcone, una libreria dove trovo Vonnegut (non sarà la prima volta, a Delhi) e altre chicche, tracce esplicite della condivisione con altre due ragazze della sua età (ventisei, ventotto, trenta?), da giovani privilegiate.

Alta middle class, ma con la voglia di guardarsi attorno. Non so bene di cosa ci siamo detti quel giorno, io avrò raccontato i miei monfalconesi, lei i suoi tentativi nella redazione di una rivista per farsi mandare in giro, a fare inchiesta. Griffin me la aveva presentata come giovanissima poetessa, ma qui c’era ben altro: una donna adulta con dei desideri adulti (non sto sminuendo la poesia, sto esaltando la voglia di conoscere, la necessità: la brama, pensa un po’).

Poi sul transatlatico, in mezzo al traffico, a vergognarmi ancora. La portiamo in redazione. A pochi metri dal parcheggio, in coda al semaforo, Annie chiede all’autista di fermarsi, perché una bambina batte sul vetro. Ma non chiede niente. Parlano, in hindi. Annie sembra rassicurarla, le mette una mano sulla testa. Ripartiamo e le chiedo di spiegarmi: dice che conosce la bambina, la vede lì tutti i giorni, per quel che può la fa da chioccia. La bambina le ha detto: ho bisogno di parlarti. Annie ha risposto: arrivo tra dieci minuti.

Dieci minuti: il tempo di salutare questo europeo in transatlantico, e il suo autista in livrea e berretto a visiera rigida (che si è rifiutato di togliersi anche a fronte di una mia precisa richiesta: e, per dirla tutta: allora chi era, quell’uomo silenzioso? Cosa avrà pensato di me? E di Annie?).

Ci siamo rivisti qualche volta, a Bombay e al festival di Jaipur. Lei ha pubblicato Known Turf, con Tranquebar, io lo ho tradotto con I miei Luoghi. Il primo non-fiction di Metropoli d’Asia, forse il libro più bello che abbiamo pubblicato (parola mia: da scrittore).

Jakarta Trio

Jakarta non è una bella città, per quel poco che ne ho visto. Vialoni a doppia carreggiata lungo i quali fioriscono i grattacieli, un traffico costantemente bloccato, vie laterali poco interessanti, anche quelle costantemente in costruzione o ricostruzione.

Un centro poco riconoscibile, nessun vero punto di riferimento. Appuntamenti da un lato all’altro della città che costringono a traversate di ore. Blocchi veri e propri, seduto nel taxi fermo che spegne il motore perché così consigliano le autorità. Quando arrivo al luogo dell’appuntamento, il mio interlocutore se ne è già andato, oppure non è ancora arrivato.

La soluzione è: non muoversi, convocare le persone dove sono io, magari nel bar di un grande albergo o di un centro commerciale. Richard Oh ha una soluzione più semplice: fa tappa in un wine bar a partire dal primo pomeriggio, e lì riceve gli ospiti. E, come molti degli abitanti di Jakarta, utilizza ogni mezzo di comunicazione che gli permette di non muoversi: I-Pad I-phone Blackberry, ciascuno con le sue chat, con il suo acceso Skype, e vai di video.

A Richard mi aveva introdotto Sharon Bakar, dama organizzatrice di reading a Kuala Lumpur, vero crocevia per tutto il sudest asiatico. E per il primo incontro Richard mi faceva l’onore di venire a sedersi nella hall del mio albergo: portava con sé due giovani e belle ragazze. Che tra loro, devo dire, si assomigliavano un po’.

Dewi Lestari più alta, entusiasta, letteralmente gasata, un fiume inarrestabile di sorrisi e di parole, e di ottimismo rivendicato come tale, rivenduto a piene mani. E Djenar: Djenar Maesa Ayu, più ombrosa, la bocca piegata a tratti in una smorfia di disgusto, fatica evidente a relazionarsi con me, ci vuole una tenaglia per tirarle fuori qualche parola. Dopo un po’ capisco che, delle due, quella legata a Richard Oh è Djenar. Ma Richard, mi dice, è solo l’agente.

Dewi ha avuto il suo momento di notorietà, nel paese. Supernova è il titolo del volume più venduto di una trilogia new age, racconti incrociati senza una trama evidente, con molti riferimenti alla fisica e alla cosmologia, in cui Dewi sciorina a piene mani il suo verbo: ottimismo, speranza, apertura nei confronti del prossimo, il tutto condito con una passione per il luogo comune che a me non piace.

Vegetariana, buddista solo un po’, prodiga di consigli di vita, abile nel descrivere le situazioni in cui gli abitanti di una grande città si impantanano regolarmente, un romanzo un po’ self-help un po’ avanguardia, del quale basta leggere poche pagine per capire che il tono è quello dello smagliante sorriso di Dewi Lestari, della sua fiducia incondizionata nella vita e nel prossimo.

Agente di sé stessa, sì: capisco che per quanto riguarda Dewi la posizione di Richard Oh è invertita, rispetto al suo ruolo di agente di Djenar: l’ha portata da me perchè introdurla a un editore europeo è buon modo di guadagnare la sua fiducia, di portarsela in scuderia (si dice così, con gli agenti: siano poi purosangue di pedegree, giovani puledre, o semplici stalloni da traino, gli scrittori vengono messi in pista, testa bassa, briglie sciolte e frustino in piena attività; chi vince?).

Dewi la incontrerò di nuovo all’Ubud Literary Festival sulla magnificente isola di Bali, sorprendentemente su un palco con un microfono in mano: ha iniziato come cantante, il suo miglior lavoro, mi dirà, è un cd musicale, che si vende con una raccolta di racconti in allegato: Rectoverso. In sostanza: una artista vera (è una bellissima donna, ma non è questa la ragione del suo successo, in Indonesia sono tutte così), ma una scrittrice (e un essere umano) troppo di maniera. Simpatica, però.

(Una piccola digressione: io quando incontro donne così, molto comprese nella loro parte di credenti new age, piene della loro fiducia e quindi fede nel futuro, e di un ottimismo cosmico, non riesco a non pensare a certe nostre donnette di chiesa, alle suore, alle signore di parrocchia raggianti per l’ultimo atto di beneficienza. Certo asessuate queste: e Dewi non lo è di certo. Però…).

Quanto Dewi appare un po’ già vista, clone locale di un cliché americano, tanto Djenar è sorprendente. Innanzitutto l’età: pensavo sotto i trenta, ma Djenar Maesa Ayu è già nonna. Poi il legame con Richard Oh: un giorno che vuole incontrarmi le chiedo di venire nel solito centro commerciale dove ho appuntamento con Richard, lei mi chiede di non farglielo sapere, e mi riceve in un angolo lontano di un bar ai piani superiori: mi dice: abbiamo rotto, preferisco non incontrarlo. Faccia scura, sguardo contrito.

Prima, e dopo, questo nostro incontro io la vedo sempre insieme a Richard, a Jakarta e a Ubud, dove loro due sembrano ospiti fissi. Di Djenar Maesa Ayu leggo una raccolta di racconti tradotta in inglese: They Say I am a Monkey. Una via di mezzo tra l’allegoria e la fantasia morbosa, o malata. Spesso il punto di vista è quello di una bambina alle prese con i molti visitatori che sua madre riceve in casa, o con un’ adulto che le porta un grosso serpente, o con il dolore fisico provocato da ripetute cadute di cui non riesce a capacitarsi, e delle quali una coppia di genitori le impone di non raccontare niente a nessuno.

Il suo romanzo invece è Nayla, in cui l’io narrante è una ragazzina alle prese con una madre paranoica, che le serra la vagina con una spilla da balla, come un’infibulazione punk. La ragazzina cresce, e i suoi passi verso l’età adulta sono scanditi dalle esperienze sessuali in serie, che la emancipano dal ricordo del dolore fisico subito. E qualcuno dice: Nayla è autobiografico. E qualcun altro dice: lo dice lei, che Nayla è autobiografico: ci ricama sopra, la ragazza, sulla propria presunta autobiografia di sofferenza.

Eppure Djenar ha avuto davvero una figlia in giovanissima età (sedici anni), e la sua smorfia tradisce un disagio non di facciata. Si relaziona spesso con me in modo nevrotico, prima mi da appuntamento di nascosto da Richard, poi mi incontra a Ubud con Richard e mi dice che loro abitano insieme, poi di nuovo a Jakarta mi dirà che Richard non è più il suo agente, e che lei vuole trattare direttamente con me.

Il bianco e il nero, Dewi e Djenar. L’ottimismo e il pessimismo, la gioia e il dolore (e io perchè preferisco la scrittura della seconda? Perché mi pare un terreno più solido su cui poggiare i piedi, perché mi pare che la verità di Djenar, anche se falsificata, racconti più della fantasia esorbitante di Dewi).

In mezzo, tra le due, serafico e tondeggiante come un piccolo Budda (e da noi si direbbe: ci sta come un Papa), Richard Oh imperversa. Nel suo wine bar mi offre una cenetta da leccarsi i baffi, vino buono di Francia. Oh è cognome cinese, quella indonesiana è una delle comunità più perseguitate dell’Asia del sudest: Richard ne ha raccontato in un paio di romanzi (molto poco riusciti, mi dicono) e autopubblicati. Lui di mestiere, sostiene, mette in contatto le persone. Giornalista, organizza un Katulistiwa Literary Award ogni anno: libri buoni, libri meno buoni (MdA ha partecipato a una edizione, e non abbiamo pubblicato il romanzo vincitore e da noi premiato!).

Foto: fidzonflickr

I temi, appunto: di che scrivono gli asiatici?

Appunto: è una parola che ricorre nei miei post. Un invito a rimarcare ciò che già ho scritto, quindi a ritornarci sopra, scrivendo come fosse punto a croce, con l’ago che torna a raccogliere il nodo già serrato e lo riaggancia più avanti, un passo oltre.

Provo a interpretarmi: quel che sto facendo è riprendere, dall’Asia, un percorso già iniziato (riannodo fili, è chiaro). Da qui raccolgo suggestioni, temi, frammenti di un mondo che descrivo e commento per quel che è: un mondo altro e distante (nuovo? parola oggi orrenda). Ma tra le righe ci leggo un riverbero della realtà mia, nostra: e allora lego e confronto, per procedere ancora (e non lo faccio solo scrivendo, ma anche scegliendo un romanzo da tradurre e pubblicare più che un altro).

E in quel che vedo non trovo un Altro a noi opposto (dove noi siamo Ricchi l’Asia è Povera, dove noi siamo Materialisti, loro sono Lo Spirito, dove noi siamo in Recessione, loro sono in Crescita), ma al contrario: ritrovo gli stessi interrogativi nostri, i nostri temi riproposti. Ma quali, dunque? Proviamo.

Gli scrittori e il mondo che hanno attorno. Il loro, di mondo. Le motivazioni, le ragioni dello scrivere. Che stanno dentro a esperienze individuali, ma anche dentro a una precisa connotazione sociale: i narratori asiatici non sono miliardari né senza casta né contadini espropriati né operai ridislocati. Sono professionisti, tutta gente che non vive al piano terra o nei seminterrati, ma su in alto, appartamenti con vista. Chirurghi, avvocati, scriptwriter, giornalisti, accademici, pubblicitari, videomakers. O figli e figlie: di manager, industriali, avvocati e chirurghi ancora.

Una certa aria nostra da secondo dopoguerra: dove da noi era ricostruzione e boom economico, qui è costruzione tout-court, e boom economico. Con tutto quel che si porta dietro: trasformazioni sociali, contrapposizioni e intersezioni tra ceti sociali diversi. Tra la ricchezza e la povertà: un baratro. Chiedendosi sempre, lo scrittore che sta in lassù, cosa succede in basso, e la società in generale, i media e i cosiddetti opinion leader, cosa sia giusto o sbagliato fare.

Consumi, ceto medio (ocio però: qui si dice middle class e si intende davvero chi sta in mezzo. Da noi si usa ceto medio per descrivere quasi tutto). Irreggimentazione dei comportamenti, frustrazione conseguente. Noia, forse, e al contrario una sottile sensazione di panico incombente (bellissima, ‘sta cosa, come ho già detto: Ballardiana).

Le donne: un ruolo nuovo, affrancate non tanto dai fornelli quanto piuttosto scaraventate in una modernità fatta di corsi di basket e nuoto per i figli, e di eterna rincorsa allo status. Da un lato, donne capaci di mettere in discussione la norma, l’abitudine consolidata, e di spingere in avanti il mondo. Dall’altro, donne come primo veicolo di consumismo, informazione come gossip, dittatura dell’emozione sul raziocinio.

Relazioni tra gli individui: estraneità e cattiveria, una buona dose di disperazione, ricerca a tutti costi di un pezzo di piacere, e a tutti costi vuol dire che lo si paga caro. Balle a gogò su sex and drugs and rock and roll, qualche verità omosessuale. Un bel tocco di solitudine.

E i lettori: narcisismo e paura del mondo. Qui i bestseller sono i cosiddetti self-help books, che ti insegnano a difenderti dal capo, a non essere timido, a utilizzare a pieno regime le tue risorse intellettuali e fisiche, a coltivare l’aggressività e la leadership! E poi tutti i romanzi che parlano del noi: noi quando eravamo all’università, noi giovani ribelli, noi famiglia in ascesa. Un io plurale ipertrofico, fin sgargiante.

Sette libri per il Man Asian Literary Prize

È stata appena annunciata la shortlist del Man Asian Literary Prize. Evidentemente tra ex-aequo e indecisioni dei giudici i finalisti sono portati a sette anziché agli usuali cinque. Questo l’elenco completo, con le schede dei libri e degli autori.

Da segnalare inoltre che è la prima volta che un autore sudcoreano entra nella lista. Il vincitore sarà proclamato a marzo.

Jamil Ahmad, Pakistan – The Wandering Falcon (Penguin India/Hamish Hamilton)
Jahnavi Barua, India – Rebirth (Penguin India/Penguin Books)
Rahul Bhattacharya, India – The Sly Company of People Who Care (Pan Macmillan/Pan Macmillan India/Picador)
Amitav Gosh, India – River of Smoke (John Murray/Penguin India/Hamish Hamilton)
Kyung-Sook Shin, Corea del Sud – Please Look After Mom (Alfred A. Knopf)
Yan Lianke, Cina – Dream of Ding Village (Grove Atlantic)
Banana Yoshimoto, Giappone – The Lake (Melville House)

What Am I Talking About When I Talk About Asia?

Rileggo i post di quest’ultima infornata. L’abbiamo voluta intitolare In diretta dall’Asia, e così è: anche se qualche pezzo è uscito sul blog mentre già mettevo le gambe sotto le molte tavole di questa fine d’anno in Italia, gli incontri e le descrizioni sono in presa diretta, scritte in quelle città d’Asia, con la memoria fresca.

Ma la memoria non è una telecamera. Scrivendo, noi non siamo mai live. La memoria, anche quella di pochi giorni o di una sola notte di sonno buono, seleziona, collega, interpreta. Accende un riflettore (un personalissimo sguardo) e lo punta dove le pare (a questo punto, con più rispetto, dovrei definirla La Memoria). (E per meglio definire il concetto vorrei dialettizzarlo ritmicamente: il riflettore La Memoria lo punta dove le pare a lei). (Il mio è un dialetto lombardo, che taluni politicamente stuprano per i loro personali affaracci, ma i dialetti sono nobili come ci insegnano tanti Zanzotto, Arbasino, Pontiggia).

La Memoria non è solo memoria, visto il modo in cui mi porta regolarmente fuori tema, a deragliare dentro a praterie esplorabili, esplorande. Mi par di ricordare che il latino avesse un tempo verbale proprio per un “dover fare in futuro”: esploratur, ci proviamo? (Ma: occhio ai doveri, lasciamoli stare, fidiamoci de La Memoria solo quando ci porta dove più ci pare e piace).

Niente latino quaggiù: hindi e marathi, cinese mandarino cantonese e hokkien (quello delle comunità immigrate nel sudest), malay così simile all’indonesiano e come quello irrobustito da termini direttamente derivati dall’arabo. Tamil, del Tamil Nadu, India del sud origine della migrazione in Indocina dei progenitori di quel Brian Gomez che porta un nome portoghese, da gente della costa, meticcia e contaminata, e ce lo rende in blues!

Mi par che questo post cominci con una lunga digressione che un po’ è un tirarla in lungo (o in lingua?) un po’, appunto, è La Memoria che mi porta a dare una risposta all’interrogativo di questa mattinata di galaverna in Lombardia: ma io che cerco? Quali sono i temi, quale il sottotesto degli incontri con tutta questa gente, delle perlustrazioni di città in città (Singapore, Kuala Lumpur, Taipei, Hong Kong, Delhi, Mumbai-Bombay-Bom Bahia) correndo dietro agli editori amici (e chissà, futuri soci…).

Perché sì, la risposta è sì: sì che ci voglio fare un libro prima o poi. Ma che ci racconto, io, in codesto libro? (Quando si scrive “io che cerco”, facendo un po’ il verso al “che ci faccio qui” di Chatwin, si scrive in realtà: ma io che voglio scrivere, davvero?) (Una volta, prima di aver mai letto né sentito parlare di quel libro di Chatwin, incominciai un lungo brano dal Burkina Faso con un “Ouagadougou, agosto, stagione delle piogge: ma che ci sono venuto a fare?”, e il direttore dell’amata rivista, letta la prima frase, lo cestinò – in senso letterale, lo gettò luciferinamente nel cestino della carta straccia dicendomi: già letto).

Ci sto girando intorno: quali sono i miei temi, in questi post? E poi: come organizzare un testo lungo sugli scrittori dell’Asia? Che controllo sono in grado di avere del mio narrare? Già: quali sono i miei temi? Rileggere, per capire. Rileggetur.

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