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    La casa editrice di Andrea Berrini, scrittore e saggista. L’obiettivo: scoprire e tradurre narratori contemporanei asiatici che propongono scritture innovative.
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La guerra (fredda) delle lingue

Una delle architetture piu belle della scintillante Singapore è la National Library, un raffinato esercizio di equilibri di vetro e acciaio bianco, sulla cima del quale spicca, tondeggiante, il POD, una struttura che ricorda lo Scrigno del Lingotto a Torino, appoggiato su un angolo dell’edificio, sporto sulla citta.

Ci si appoggia alla balaustra e ci si gode il passaggio dal giorno alla notte, in questa metropoli che sta diventando una delle piu belle del mondo.

Del resto, non si puo far altro che guardar fuori: la presentazione del nuovo romanzo di Yeng Pway Ngon è interessante, un’ora di discussione serrata, ma rigorosamente in cinese… Non sono l ‘unico sorpreso dalla scelta, ma il romanzo è scritto in cinese complesso (quello di Taiwan, per intenderci, che perfino i nostri traduttori piu esperti fan fatica ad affrontare), il mio amico Pway Ngon si sente piu a suo agio in cinese che in inglese, e…

E a questo punto anche a Singapore si comincia a sentire l’influenza del Dragone. Arriva la letteratura cinese in cinese, se ne prendono le televisioni, e la sua popolazione di origine cinese si chiede perché fare la fatica di comunicare sempre e cominque in inglese, visto che in casa si parla il dialetto Hokkien, Cina meridionale.

Mi avevano detto che la narrativa di lingua cinese e malese qui sta riducendosi al lumicino. In tutto il mondo dove l’inglese è disponible (penso all’India, a tanti paesi africani, alle Filippine della diaspora), prima o poi l’inglese vince. Ora invece, in Asia, comincia a regredire: l’altroieri ho postato su Fixi, la collana in malese di Amir Muhammad a Kuala Lumpur. E ora questo segnale chiaro.

In ogni caso daremo in lettura a un esperto di cinese complesso il romanzo di Pway Ngon: una storia che si nutre nella sua autobiografia, e segue un gruppo di personaggi dagli anni Sessanta ai Dieci, da una giovinezza ribelle di mobilitazioni per lindipendenza prima e per la democrazia poi, alla Singapore odierna, dove nasce un’opposizione parlamentare che prende il 40% dei voti e il Web detta legge. Singapore comincia a lievitare nella mediasfera: se ne e’ accorto anche Pascale, sul Post.

Foto: inju

Amir Muhammad

Abbiamo già parlato di Amir Muhammad, su questo blog. Un cineasta malese, noto in tutto il mondo per i suoi documentari, e da pochi anni anche un editore di qualità, con la sua Matahari Books, che pubblica saggi sul suo paese.

Non ultimo questo Growing up with ghosts che, raccontando di una coppia mista in un passato di discriminazioni razziali, sta spopolando in tutto il multirazziale Sud-est asiatico. Ma Amir non è contento, e ne ha inventata una nuova. Si chiama Fixi, termine indonesiano che naturalmente significa fiction.

Guardate questo sito, avviate la traduzione automatica e qualcosa se ne capisce. Da intellettuale intelligente qual è, Amir cerca di raggiungere un pubblico più vasto possibile, giovane, che legge solo in malese. Lo fa con una serie di gialli, mistery, spystories scritti da esordienti assoluti (quanto meno per quanto riguarda la scrittura). L’ultima uscita parla di zombie! E, ovviamente, già sono in coda le case di produzione cinematografica per farne un film.

Ho incontrato Amir in un ristorante sotto gli uffici della radio più ascoltata di Kuala Lumpur, BFM. Mi ha giocato uno scherzetto: siamo entrati in uno studio di registrazione ed è partita l’intervista. A Metropoli d’Asia.

Chisura di festival a Singapore

L’ultimo weekend del Singapore Writers Festival ha visto finalmente la presenza di qualche ospite di prestigio dall’Asia.

Il paradosso è stato però la discussione con Murong Xuecun e Xi Er sulle problematiche della traduzione dal cinese nelle lingua occidentali. Molti ne hanno parlato, a margine del festival, delusi dal fatto che la sessione fosse in cinese senza… traduzione.

In questo paese dalle molte lingue l’argomento potrebbe generare utile dibattito, anche perché qui si sta cominciando a fare esperienza di un ritorno al cinese, dopo decenni in cui l’inglese si è imposto come lingua franca e del sistema scolastico.

I ragazzi, abituati fino a pochissimi anni fa a parlare cinese tra di loro e in famiglia ma a leggere in inglese, ora trovano una produzione letteraria (e cinematografica) in cinese. Questo porta alla ribalta anche una narrativa singaporeana in cinese che in passato restava nell’ombra. Insomma, tra Chinese e English speakers, bisognerà che cominciamo a parlarci davvero. Qui e nel mondo intero.

Tra gli autori presentati, Bi Feyu si è trovato di fronte a un uditorio sorprendentemente striminzito. Bi Feyu è autore di due romanzi che in inglese sono stati tradotti con Moon Opera e Three Sisters. È un esponente di quella schiera di scrittori cinesi più famosi all’estero che in patria, perché capaci di andare a incontrare il gusto dei lettori occidentali narrando di cambiamenti a cavallo delle varie epoche storiche (la conquista del potere da parte dei comunisti, la Grande rivoluzione culturale, gli Anni ’80 delle speranze di cambiamento frustrate dalla repressione di Piazza Tien an Men, il boom economico recente delle metropoli).

Abbiamo già citato un’intervista di Jo Lusby, prestigiosa editor di Penguin a Pechino, che elencava questi elementi del gusto occidentale che a suo parere gli scrittori cinesi possono andare a incontrare con successo. Ma a Singapore casca l’asino: Bi Feyu interessa meno un popolo di lettori di origine cinese che non è disposto a mediazioni di quel tipo.

Sempre in tema di relazioni tra lingua inglese e lingue locali asiatiche, ecco l’annuncio della long list del Man Asian Literary Prize di Hong Kong. Il premio era nato in origine per favorire l’accesso al mercato globale di opere scritte in cinese, indonesiano, coreano, malese o hindi e tamil (infatti concorrevano opera non ancora pubblicate in inglese, ma per le quali fosse disponibile una traduzione in inglese che veniva commissionata appositamente dalle case editrici o dagli autori stessi).

Ora partecipano opere già pubblicate, con il risultato sì di innalzare il livello dei romanzi che concorrono, ma al contrario l’effetto di prensentare romanzi che già sono stati pubblicati o lo saranno a breve in italiano. Murakami, Gosh, Shin Kiung-sook e tanti altri. Insomma meno interessante per chi fa scouting, e forse anche fuori tempo massimo per qualche edizione europea.

Il Singapore Writers Festival diventa a partire da questa edizione annuale: vedremo che direzione saprà prendere nel 2012. Io spero che riesca a guadagnarsi, magari anche per la posizione geografica, un ruolo di crocevia asiatico. Certo però, con traduzione simultanea dell’inglese in cinese e del cinese in inglese.

Malesia Rock?

Brian Gomez vuole scrivere il sequel di Malesia Blues. Ma non trova il tempo.

Videomaker per la pubblicità, ha impegni continui e senza orari, spesso (crisi per tutti) non pagati o dilazionati allo sfinimento (cioè: mi dovevano tre e mi accontento di uno, dice lui). È stufo.

Tra l’altro ci sono buone prospettive per la realizzazione di un film da Malesia Blues (Devil’s Place in inglese): una importante casa di produzione (niente nomi per ora) gli ha comprato un trattamento, un regista è stato scelto. Naturalmente sarà in malay, per un pubblico locale. Ma l’industria cinematografica malese è una delle più importanti del continente, i suoi film girano il mondo, chissà.

La sua voglia di scrivere è genuina, urgente. Mi racconta la trama non solo del suo secondo romanzo, ma anche del terzo. Certi personaggi ritornano, altre figure secondarie divengono protagonisti di una narrazione che non disveliamo qui, lasciamola correre in libertà dentro alla testa di Brian e alle sue dita sui tasti del computer.

Ma come trovare il tempo per lavorare ogni giorno, quattro o cinque ore? Capisco che non sia solo questione di tempo, ma di tempi: Brian, che virava sul grassottello come tutti gli indiani alla sua età, è dimagrito per la frustrazione di un lavoro che lo costringe a lunghe trattative, a orari che non può controllare, a continui scambi di informazione via cellulare.

Me ne ha mostrato la cronologie e dice: come faccio a scrivere se mi chiamano ogni venti minuti, e molte volte è per dirmi che di un dato lavoro non se ne fa nulla, o che non possono pagarmi prima di sei mesi?

Quindi ci vuole un lavoro a orari fissi, possibilmente la sera. Brian Gomez, che come il Terry Fernandez di Malesia Blues ha passato un molti dei suoi anni giovanili a suonare blues nei locali, ha il suo progetto.

Cinque sere la settimana, una band già avviata, richieste da tutte le parti e un chitarrista disposto a tenere i contatti con i proprietari dei locali. Si chiamano Have-Nots, eccoli qua.

Li ho sentiti un sabato sera al ChillOut, un grosso bar all’aperto sulla terrazza di uno shopping mall, Subang Parade, che fa da centro di gravità per Petaling Jaya, un sobborgo residenziale da classe media a un bel venti chilometri dal centro di Kuala Lumpur.

Bassista cinese, seconda voce e chitarra solista malay, batterista bianco. Brian Gomez è di origine indiana. Suonano evergreen del pop anni settanta per scaldare il pubblico, e poi un sacco di roba sua, composta da lui, riarrangiata e vissuta da lui, a metà strada tra il rock e le sonorità del pop malay. Mooolto interessante!

Cronache (tardive) dal Singapore Writers Festival

Due weekend, e in mezzo un mercoledì festivo (Diwali, il festival indiano delle luci, perché qui un bel pezzo della popolazione è Tamil).

Il primo weekend del Singapore Writers Festival è dedicato agli ospiti anglosassoni: Australia e UK soprattutto, paesi che sono ancora riferimenti culturali imprescindibili per una popolazione all’80% di origine cinese (ma che usa l’inglese come lingua ufficiale e del sistema scolastico).

Noto una certa condiscendenza nel corso degli incontri, certo qualcuno (per esempio Andrew Motion, poeta) è anche baronetto, ma è chiaro che sia per i poeti locali che per il pubblico a uno scrittore inglese ci si rivolge in un modo, a uno asiatico in un altro.

Mica male il panel “Cosa significa appartenere”, con tre donne. Alice Pung, concepita nella Cambogia di Pol Pot da genitori cambogiani ma fortunatamente nata in Australia.

Poi la spettacolare (perdonate l’esagerazione) poetessa Grace Chia Krakovic, singaporeana moglie di un diplomatico che ha condotto la propria vita cambiando casa ogni tre anni (intendiamoci: Brasile, Finlandia, Filippine, Perù…) portandosi dietro tre figli tre e conquistandosi uno spaesamento che si trasforma in parola, una di quelle persone che non si finirebbe mai di ascoltare, una specie di aliena che sicuramente prefigura un futuro che ci riguarda.

E Oka Rusmini, Indonesiana che come tutti gli indonesiani non parla inglese. Rusmini è una delle autrici/autori tradotti in inglese dalla Lontar Foundation. Ne abbiamo già parlato sul blog. Bella iniziativa, almeno l’editoria internazionale si può leggere un po’ di narrativa indonesiana. Una pecca: mancano autori più giovani, narrativa degli ultimi dieci anni.

Mercoledì, bella festa per i dieci anni della Quarterly Literary Review of Singapore, magazine online che abbiamo da tempo tra i nostri siti consigliati. Presenti i maggiori poeti e critici letterari di Singapore, musica, vino, chiacchiere.

Sabato e Domenica 29-30, una pattuglia di asiatici, finalmente: Bi Feyu, Vikas Swarup (che dopo Q & A –  Slumdog Millionaire è come il prezzemolo, lo trovi dovunque), Kunal Basu e Jose Dalisay dalle Filippine. Vi racconteremo.

Non possiamo invece raccontarvi di una discussione sicuramente interessantissima tra Murong Xuecun, Xi Er e lo stesso Bi Feyu, sul tema della difficoltà di tradurre narrativa dal cinese: la discussione è in cinese. Così come sono in malay tutti i panel con scrittori di lingua malay. Non pare una furbata.
Singapore multilingual…

Toh Hsien Min

Da un anno cerco di scrivere un post su Toh Hsien Min, uno dei maggiori poeti di Singapore, probabilmente il più interessante nella generazione entro i cinquantanni.

Intendevo cominciare con una panoramica sui grattacieli che circondano il bacino di Marina Bay, quello dove si è costruito negli ultimi dieci quindici anni – con una accelerazione recente che ne sta facendo un’icona turistica per l’Asia intera.

La panoramica dovrebbe terminare sui parallelepipedi blu – o trasparenti, o meglio ancora translucenti di luci da scrivania, scrivanie che ospitano gli operatori finanziari di una tra le piazze appunto finanziarie più importanti dell’Asia, e svelare che su una di quelle importanti scrivanie siede il mio importante poeta.

Dedito, mi spiega lui, a “costruire modelli di aggiustamento dei default”. Gli ho chiesto: sarai mica uno di quelli che han combinato il megacrac? Dice no, semmai i miei modelli servirebbero a rientrare. Ma io sono solo un matematico, di soldi non ne so nulla. Dunque finanziario, matematico, poeta, di cognome fa Toh e Hsien Min di nome.

Mi piace spendere del tempo con lui, ma la difficoltà a raccontarlo deriva dalla difficoltà nel parlargli. Uno slang stretto in quello che loro definiscono Singlish, bofonchiato da un piccoletto incline al gioco di parole, e che le parole, come si dice, se le mangia, e mi rende quasi impossibile mantenere l’attenzione accesa per più di un’ora o due.

Insomma: si resta ai preliminari. Che sono una cena autenticamente local (questa piazza finanziaria è anche turistica e gourmet, ma lui mi porta in un quartiere popolare, dove sotto una grande tettoia stanno le baracchette degli hawkers, come dicono qui, sportelli dietro ai quali si confezionano pietanze insuperabili: altro che chef internazionali!) Insomma io mangio, lui si mangia le parole. Non la Parola, che è il suo vero mestiere e la sua passione: ma questa me la regala solo in forma scritta, sorry.

Il lavoro piu importante di Hsien Min è Means to an End, una raccolta di poesie che l’anno scorso era tra i tre finalisti del Singapore Literature Prize, assieme a una raccolta di racconti e a un romanzo (e a quello, City of Small blessings di Simon Tay, è andato il premio). Alcune sue poesie sono uscite anche in una curiosa antologia si Ethos Books: singaporeani tradotti in italiano e un italiano, Tiziano Fratus da Torino, tradotto in inglese. L’antologia si chiama Double Skin, forse in qualche libreria di Torino…

Peccato, noi non ce la facciamo a fare poesia. Ma forse, con l’imporsi dell’e-book…

Mannaggia, riuscissi a parlarci con più facilità. Qui mi confermano: sì lui spesso si esprime in modo criptico, poco comprensibile. È quasi un gergo underground. Mi domando che gergo usi nel suo ufficio di luci e vetri (però di giorno appare di un blu intenso).

L’antologia del folklore asiatico

Da Cha: An Asian Literary Journal troviamo la segnalazione di un’interessante iniziativa chiamata Eastern Heathens, legata al recupero dell’immaginario folkloristico di tutto il Sud-est asiatico.

In pratica: favole, miti, piccole storie da riscoprire e riprendere dal passato per riproporle a un pubblico più adulto e maturo.

La scadenza, per chi volesse partecipare, è a 31 gennaio 2012. Interessante esplorare il sito, dove si può trovare ad esempio una lista di favole di partenza, divisa per stati.

Isa Kamari

Isa Kamari è uno scrittore di lingua malese. E dovrei aggiungere: di razza malese, di cultura malese, e musulmano come tutti i malesi. Dei suoi otto romanzi, tre sono stati tradotti in inglese.

Due di questi, curiosamente, hanno lo stesso soggetto: l’adozione da parte di una famiglia malese e musulmana di una bambina olandese (il titolo del romanzo è Nadra) in un caso, e cinese (One Earth) nell’altro.

Kamari vuole raccontare le persecuzioni sofferte dal suo gruppo etnico, in diversi momenti storici, durante la dominazione coloniale olandese e britannica, durante l’occupazione giapponese, ma anche, a Singapore, con l’indipendenza.

Come molti autori musulmani dell’area (in Malesia avevo incontrato e poi letto in traduzione Samad Said e Faisal Teherani) l’intenzione è talmente soverchiante da rendere la lettura difficile a un laico. Non c’è niente da fare: la religione rivelata impedisce allo scrittore di dispiegare pienamente le sue capacità, che pure sono notevoli. Solo in One Earth questo nucleo indiscutibile riesce a restare sullo sfondo.

I romanzi di Kamari sono sempre a tesi, e quindi imprigionati entro uno spazio ristretto, le storie non prendono il volo. Come per i due autori malesi che ho citato, l’autore non sa mai prendere distanza dall’oggetto del suo racconto, non è in grado di cogliere i chiaroscuri.

Ho incontrato Isa Kamari di fronte a una tazza di caffè. Mi ha descritto il suo ultimo romanzo, Embracing the Eclipse, fortemente autobiografico, centrato sulla propria giovanile adesione (erano gli anni settanta) a un islam militante – se pur ancora non integralista e fondamentalista – che però gli appariva come l’unica strada percorribile per cercare un riscatto dall’oppressione subita dalla sua razza.

È un romanzo autocritico, così come Kamari è critico con ogni forma di integralismo contemporaneo (si dice convinto che dopo due decenni i movimenti fondamentalisti abbiamo i giorni contati, e ne è contento). «Vorrei far capire quanto ingenua ma onesta fosse la mia carica di ribellione, e come sia stato un errore cadere preda degli assolutismi».

Purtroppo, e lo dico con rammarico, la sua scrittura non riesce a discostarsi da un registro apologetico, da un afflato religioso mai messo in discussione.

Mi regala una perla: non riesce a capire l’ossessione del cattolicesimo nei confronti del piacere sessuale, che l’Islam invece esalta come cemento nelle relazioni, anche familiari, tra l’uomo e la donna. E la negazione del diritto al divorzio, che l’Islam invece accetta come normale, prevedendo, a suo dire, modi e regole per proteggere le donne.

Ho fantasticato su un romanzo che tratti l’argomento: che so, una donna musulmana che sposa un cattolico e non capisce le sue reticenze. Lui rideva.

Editoria digitale in Cina, il caso Tangcha

Nonostante il mercato cinese dell’editoria digitale attraversi ancora qualche difficoltà, dovute tra le altre cose alla mancanza di piattaforme di distribuzione uniformi, scarsezza di carte di credito e pericoli derivanti dalla pirateria, il caso di Tangcha rappresenta un interessante esempio di successo.

Ne parla Paper Republic che intervista il fondatore Lawrence Li. La piccola casa editrice, solo digitale, punta su un catalogo piuttosto eclettico (si va dai romanzi a una biografia di Steve Jobs), e una certa capacità di muoversi in Rete: pubblicità che si basa fondamentalmente sul passaparola e uno stile piuttosto glamour.

Stile che però si traduce in una notevole attenzione per la leggibilità, con addirittura il lancio di un nuovo carattere tipografico. Sul futuro, Lawrence Li è ottimista. Oltre alla maggiore diffusione delle carte di credito, è convinto che i cinesi sapranno apprezzare e-book di qualità, anche nella confezione.

Le librerie di Singapore

A una anno di distanza, una verifica dei cambiamenti in atto a Singapore. Ha chiuso Borders, qui come altrove. Ma nessuno ha cercato di rimpiazzarla, non sembra essere nato un nuovo spazio di quel livello.

La libreria più grande resta Kinokuniya, catena giapponese presente in tutto il Sud-est asiatico. Ci sono due entrate: quella, diciamo così, casuale, dalle scale mobili che risalgono piano dopo piano il centro commerciale, e quella principale, accessibile direttamente dalla strada.

Quella casuale è posizionata sui reparti dell’illustrato e del cosiddetto self-help: tomi di vario tipo che insegnano a sopravvivere nella modernità raggiunta di recente.

L’entrata dalla strada è invece sulla fiction (qui definita come Literature). Sui primi banchi e nello scaffale bestsellers spiccano romanzi americani, britannici, australiani, insieme all’ultimo di Aravind Adiga, indiano nato in australia.

Però subito a seguire c’è una scaffalatura nuova di zecca: letteratura cinese, giapponese, asiatica, indiana e “local“. Segnale di attenzione da parte dei lettori per il proprio continente in ascesa.

Naturalmente stiamo parlando dei volumi in lingua inglese, perchè in un paese dove l’inglese è la lingua del sistema scolastico, la più grande libreria conserva ancora quasi la metà dello spazio ai libri in cinese. Che, mi dicono, sono per la maggior parte di editori cinesi, ma con una buona presenza dei taiwanesi. In ogni caso la literature cinese o inglese che sia, occupa non più di un quinto dello spazio totale.

Foto: penguincakes

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